mercoledì 6 settembre 2017

AILANTO n. 49 - su Giorgio Ghiotti



Scrive Biancamaria Frabotta, nella densa prefazione a La città che ti abita di Giorgio Ghiotti, che «sono così pochi i poeti nativi di Roma nella nostra precarietà di esuli, di emigrati, di spatriati, che quando ce ne capita uno è meglio non lasciarselo sfuggire». È vero, la capitale è più una città di poesia che di poeti; per questo, «quando ce ne capita uno», non vengono a mancare attenzione e curiosità, e quasi mai ne restiamo scontenti. È anche il caso di un talento precocissimo come quello di Ghiotti, che a ventitré anni (l’età in cui un altro enfant prodige, Valerio Magrelli, esordiva con Ora serrata retinae) congeda la sua seconda opera in versi, dopo Estinzione dell’uomo bambino del 2015. Una distanza ravvicinatissima tra le due prove suggerisce una certa contiguità tematica ed espressiva, puntualmente colta nelle osservazioni della prefatrice, a cui rimando. È come se, di tappa in tappa, Ghiotti stia circoscrivendo, nella forma della poesia, un universo affettivo, amicale, domestico, quello a lui più prossimo, cercando di attingervi quell’essenzialità in cui far confluire necessità comuni, piccole verità condivise, condotte alla disamina del tempo. Proprio «cuore» e «tempo», quest’ultima nelle sue svariate declinazioni, sono i termini che più ricorrono in queste nuove poesie.
«Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto». Così Manzoni, nell’ottavo capitolo del suo romanzo. E veniamo al centro della questione che fa da filo conduttore ai testi di Ghiotti. Non so se avesse presente questa frase, in cui l’affettività si misura con la temporalità, fra passato e futuro: la poesia non conosce presente, del resto. Perché «cuore» e «tempo», in questo libro, intrattengono un rapporto dialettico. Si affrontano, si scontrano, prendono coscienza l’uno dell’altro. E lo fanno attraverso un susseguirsi scenico, di sequenza in sequenza, come se fossimo chiamati ad assistere a delle brevi pièces, che i personaggi di una vita, per quanto esigua, vengono a recitare su un palcoscenico di micronarrazioni. Ma è davvero esigua una vita di ventitré anni, quando il mondo affettivo che vi si dispiega appare così inevitabilmente ricco, agito da grandi dolori come da minimi sussulti, e soprattutto da continue scoperte? In un panorama di giovani e dottissimi versificatori, che forzano la scrittura verso una maturità fittizia, ancora lontana dal compiersi, Ghiotti è l’ultimo poeta bambino in grado di stupirsi della vita, e di raccontare il proprio stupore con l’esattezza della grazia. In filigrana ritrovo qualcosa di Penna, le sue avversative, il suo fraseggio, ma senza epigonismo: in filigrana, appunto, come a dimostrare l’esercizio di una lenta assimilazione. E la ricerca di varchi del primissimo Montale.
Anche Ghiotti è un lettore dotto, prima che poeta e narratore. Il miglior Novecento si raccoglie dietro le sue parole e sarebbe poco utile provare a tirar giù altri nomi, che stranamente (come accade spesso alla poesia romana) non apparterrebbero neppure agli immediati dintorni dell’urbe. Quando si mettono cuore e tempo in una stessa poesia, si muovono ampie tradizioni, e alla fine, tra i due, nessuno vince, perché non esiste che un «sentimento del tempo». Ma per Ghiotti questo non s’identifica tanto nella «tragedia dell’infanzia» che pure Frabotta rievoca in apertura, quanto nel perdurare di un’adolescenza che brucia e brucia, come vuole il suo etimo (adolesco) portandoci verso nuove forme e nuove acquisizioni. E lasciando, nella cenere, la traccia di quel che siamo stati. Ha ragione Ghiotti: c’è un «lordo» e c’è un «netto», nei nostri bilanci affettivi, un tempo pensato e un tempo vissuto, qualcosa che si perde, e altro che si salva per sempre.

Giorgio Ghiotti, La città che ti abita, prefazione di Biancamaria Frabotta, Empirìa 2017, e. 12.00.

Vorrei trattenerli per intero, ora, i ponti
interminabili di agosto, le sagome indistinte
di urla fuori dalle scuole, gli archi
spalancati sulle piazze, il riposo dei cortili
per lui che mai del tempo ha fatto scorta
e quello speso dietro a un farsi e disfarsi
di giorni chiamarlo per nome, ritrovare
nel suo farmi battaglia d’allora
lo spiraglio oltre il silenzio di adesso.

lunedì 4 settembre 2017

AILANTO n. 48 - Su Raffaele Niro



Non so se Raffaele Niro, nel congedare la sua raccolta più recente, intitolata L’attesa del padre, avesse presente un aneddoto ungarettiano, che mi sembra di ritrovare in filigrana ad apertura di libro. Ogni inizio d’anno, ovunque si trovasse, l’autore dell’Allegria e del Dolore prendeva carta e penna e si costringeva alla scrittura. Si trattava di una specie di rito magico, di un esorcismo nei confronti dell’aridità creativa: il primo giorno dell’anno diveniva una sintesi simbolica dell’anno intero, così che trascorrerlo senza aver scritto una poesia avrebbe significato un raccolto in versi davvero magro. In questa sua «attesa», che leggo in senso soggettivo più che oggettivo per il carico di affetto che trasuda (è il padre che attende sia le nascite imminenti sia i loro sviluppi in termini emotivi e di crescita), Niro, nel dedicare alla sua figlia minore la suite d’ingresso, scrive: «la solitudine a gennaio / aiuta a togliere l’erba cattiva / dal campo dell’immaginazione / per favorire la messa a dimora del futuro». È un’allegoria della vita morale, ma anche della poesia. Al volgere dell’anno – tempo inevitabile di bilanci, anche esistenziali - si rende necessario disinfestare il campo, liberare l’immaginazione dalle zavorre del vissuto, quando questo non sa farsi materia di poesia. Si deve entrare in un tempo interiore, agostiniano: il tempo della riflessione, dell’introspezione. La solitudine è la condizione che lo consente, all’epoca di Agostino come nella nostra, anche se gli spazi sono resi più difficili. È anche il tempo di riconoscersi e di misurarsi in una nuova identità: quella paterna, appunto.
Allora non sorprende che le epigrafi che fanno da viatico a questa raccolta appartengano proprio a Ungaretti e a Octavio Paz, ovvero a due poeti girovaghi per antonomasia, per quanto diversi tra loro. Con un sostanziale distinguo, però: la geografia di Raffaele Niro è una dimensione tutta interna, affettiva. Quanto si narra nei suoi versi risponde a una condizione sentimentale. Mentre quei due maestri inseguono l’uno i deserti della modernità e l’altro la sua urbanità cangiante, Niro sceglie la strada di un possibile spostamento di valori, e si arrocca nell’altalena incessante di astratto e concreto, aprendo di fatto un varco («una porta», scrive Paz) al pensiero, nel pensiero dell’attesa. Del resto, è uno dei modi possibili di declinare il proprio girovagare: «tra le dita si è incantato il tempo», «il tempo che si crede d’attesa / esce da un ricordo col profumo di futuro», leggiamo in poesia d’attesa. Allo spazio, questo poeta ha prontamente sostituito il tempo. Non è una strategia certo nuova, nella storia della tradizione lirica, della nostra in particolare: ma Niro aggiunge, di suo, questo proiettarsi nel futuro, questo fare della memoria non solo uno straordinario vettore affettivo, come ci insegnava Leopardi, ma soprattutto un cortocircuito per cui il passato si lancia in avanti. È un’altra, neppure troppo sotterranea allegoria generazionale, con tutto il carico di responsabilità che possiamo supporre: «perché l’attesa di un figlio / non si conclude / con la sua venuta al mondo».

Raffaele Niro, L’attesa del padre, Transeuropa 2016, e. 11,90.


le mani del figlio

le mani di mio figlio
aprono l’asola del mattino
con la disinvoltura della luce

è lui che cuce l’alba
trasformando materia scialba
in un pezzo di universo
che inizia qualcosa di possibile