mercoledì 3 ottobre 2018

Stefano Modeo, La terra del rimorso

Appena apparso da italic/peQuod, con la mia prefazione che posto.






Sempre più, nell’osservare quanto ci accade intorno, ci rendiamo conto di quanto la poesia abbia rappresentato, e continui a rappresentare, un esercizio di libertà. Felicemente estranea alle leggi di mercato, alle imposizioni della tecnologia, e ingenuamente – nel pregiudizio dei più – svincolata dalla realtà materiale, la poesia vive e si fa, com’è nel suo etimo, nell’assoluto della libertà. Per questo, anzitutto, non sopporta etichette o aggettivi di complemento, sia che riguardino le modalità stesse della scrittura sia i suoi referenti. Non importa che il suo sguardo abbracci orizzonti vastissimi o ripieghi nell’interiorità, nell’io e nei suoi immediati dintorni: ogni ipotesi di lavoro è legittima, e legittimata dall’invito costante a riappropriarsi di quei significati che la tarda modernità, o la post-modernità, cerca di ottundere nell’inseguimento del nuovo e dell’effimero. Viviamo in una pseudo-civiltà del transeunte, che si riflette in linguaggi plasticamente docili e ammaestrabili, comunque finalizzati a uno scopo retorico: la pratica del convincimento e dell’indispensabilità.
La lingua dei poeti, invece, ambisce a fermarsi nel tempo, proprio mentre lo trascende: è classicamente inattuale, anche quando si spinge nei territori del gioco, della sperimentazione, della fondazione di linguaggi altri. Lo è anche quella di Stefano Modeo e di questo libro, La terra del rimorso, che prende il titolo da una splendida intuizione di Ernesto De Martino riportata in epigrafe, come un vero e proprio viatico. Modeo è un giovane autore pugliese, e quella terra così prepotentemente ravvicinata, in anni recenti, dai flussi turistici, dal cinema e dalla pubblicità, resta invece misteriosamente remota nelle sue identità, nei suoi miti e riti, se torniamo a rileggerla attraverso le pagine dell’etnologo. Come se gli anni non fossero trascorsi, come se progressi e commerci più o meno levantini non l’avessero turbata più di tanto nella sua sostanza profonda. Eppure il «rimorso» a cui Modeo, attraverso De Martino, allude, non è soltanto il sentimento che segue a una «scelta mal fatta», ma è anche e soprattutto ri-morso, ovvero il dolore acuto che viene da una compravendita d’identità. Cerchiamo di capire in che senso. 
Modeo non scrive dai territori di un Salento fantastico e idealizzato, ipnotizzato dai ritmi della taranta, ma dalla città che nel suo stesso nome porta le radici di quella storia arcana, pur avendo vissuto, sul proprio tessuto dilaniato, le ferite inferte da un’industrializzazione senza scrupolo e senza controllo. Il luogo da cui ci parla è Taranto, e nelle sue case il ri-morso lambisce ogni parete. Catapultata in un presente dominato da ben altre norme che quelle dei miti lontani, Taranto si è trovata a voltare le spalle, in un brevissimo arco di tempo, a quel passato indefinito con cui non ha potuto fare i conti fino in fondo. Così quel passato riaffiora, nello stridore delle macchine e dei nuovi costumi, travestito da «nevrosi», scontrandosi con temi inediti e annodando problemi, sui quali ancora siamo chiamati a discutere e a prendere parte. In questa prospettiva anche i fumi delle acciaierie sembrano la superficie della questione, l’effetto di una causa ben più radicale e importante. Dunque Modeo, con queste poesie così distanti dalla colloquialità malinconica, dalla tenerezza spossata e inquieta di tanto minimalismo fin-de-siècle, imposta un’anti-epica, dirotta i languori di una visione ancora elegiaca o lirica, come poteva essere nella sua tradizione (quella, per intenderci, di Bodini o di Carrieri), verso esiti più rigorosi e serrati. Il suo occhio è attento e severo, e con tale attenzione e severità allestisce le sue disarmanti allegorie, riesuma e rivitalizza una «lingua morta» per farne, ancora una volta, lo spazio di una significazione comune, condivisibile. Lo spazio del «noi»: «cominciamo a parlare al futuro / non sappiamo bene cosa dirgli / ma siamo tanti tutti insieme». 
Un’allegoria è una metafora che si fa racconto. Un travestimento che vuole parlare più apertamente e profondamente di una dissimulazione, di un mostrarsi a nudo. Nel suo spostarsi anche in altre terre – e da lì tornare a osservare la propria – Modeo adotta spesso immagini della navigazione. Non è certo il primo a farlo, e il pensiero torna subito a Dante, a un’Italia allora, come oggi, inesistente, ridotta a una nave senza nocchiero, presa nelle tempeste della Storia. Ricordava un autore come Auden che ogni qualvolta in poesia tornano ad agitarsi gli «irati flutti», vuol dire che la società, non solo il singolo, è scossa da pesanti perturbazioni. Il mare è la scenografia prediletta dalle allegorie sociali, dai grandi quadri; come quello che di testo in testo il giovane poeta della Terra del rimorsoha cercato di mettere insieme, mostrando una padronanza espressiva che lo colloca su ben altro piano di maturità da quello della sua anagrafe. Così la «terra del rimorso» si attesta anche come la terra del disagio, del rifiuto, dell’inadempienza; il disagio che mette a confronto, in una guerra tristissima, i poveri coi poveri; il rifiuto di una tradizione non ancora portata a compimento ma cristallizzata in una vetrina ludica altrettanto triste; l’inadempienza verso quanto si sarebbe potuto fare e ancora è ben lungi dall’essere fatto. Non è solo la Sicilia, come voleva Sciascia, una grande metafora, lo è l’intero Meridione. E, a guardar bene, spostandoci verso altri confini (ciò che i poeti invitano sempre a fare) lo è diventata l’Italia tutta. «Serva Italia», scriveva Dante, consegnandoci una poesia, e una letteratura, che ci aiuta a non essere servi. È in questa dimensione di affrancamento dalla pesantezza del presente che mi piace pensare a Stefano Modeo.