mercoledì 31 dicembre 2014

Grazia Calanna su Solstizio

Posto la recensione di Grazia Calanna, apparsa su «La Sicilia» del 29 dicembre. Prosit! e auguri



lunedì 15 dicembre 2014

AILANTO n. 12 - Su Attilio Lolini




A soli due anni da Carte da sandwich, apparso nel 2013 da Einaudi, Attilio Lolini ci sorprende con una nuova raccolta di poesie, Bestiario gotico. La sorpresa è proprio in questa rapidità: Lolini appartiene a quella schiera nobilissima di autori appartati, un po’ schivi e un po’ caustici, ironici e sornioni, che dispensano con estrema saggezza – e con parsimonia l’arte della sprezzatura. Di se stesso ha sempre dato una definizione, quella di “vice-poeta”, decisamente in linea con il suo libro precedente: Carte da sandwich si rifaceva a quella serie di titoli all’apparenza sottotono, falsamente minimalistici (ricordo le Poesie per incartare l’insalata di Michele Serra, fra i tanti possibili, ma con un distinguo fondamentale: Serra è un umorista – un moralista? – che in quell’occasione si è prestato alla poesia, Lolini è invece un poeta con una spiccata cifra comica) attraverso cui la poesia ci lancia un indiscutibile segnale di presa di coscienza critica. Parlare del presente, di questo presente, è cosa davvero ardua per chi non scelga la strada del solipsismo lirico, della cronaca sentimentale. E parlare chiaro, in una lingua che non si arrocca dietro facili orpelli retorici o giochi manieristici, ma che riesce ancora a costruire un’immagine plausibile del mondo anche e soprattutto ricorrendo a un istituto desueto come quello della rima (rima che è sempre in Lolini il modo di rendere e chiudere un pensiero, accanto all’immagine) è impresa ancora più difficile.
Lolini però vince sempre la sua scommessa e anche questo Bestiario gotico ne è la felice controprova, anche rischiando qualche effetto straniante. Dagli scenari talvolta asfittici del verso contemporaneo il lettore ha l’impressione di calarsi improvvisamente in una lingua che mima quella di certa poesia fin-de-siècle, tra Otto e Novecento. C’è un certo tono scanzonato, un po’ da poeta maudit e un po’ da osservatore irridente: un Palazzeschi senza liberty, capitombolato all’indietro, un po’ Lucini e un po’ Lautréamont, o Corbière,  non senza qualche eco da Apollinaire; o forse precipitato in avanti, tra le stravolte capriole di una comica del cinema muto. Il tutto, come sapientemente diceva Orazio, per fare secco il futuro ed esorcizzare – come in altri luoghi recenti della poesia di Lolini – anche la vecchiaia, il decadimento fisico, infine la morte. Ma dietro questa traccia personale, la realtà preme da ogni parte, incombe nel pensiero del poeta e si traveste spesso da apologo, da favoletta allegorica (allegorici sono moli di questi titoli, che sembrano talvolta esprimere un enigma, un rebus), e induce l’autore a mimare un’andatura da filastrocca, portata fin quasi sulla soglia del nonsense. E proprio qui, sul limite estremo di questa soglia che Lolini si sforza di non varcare mai, accade che l’allegoria si disveli e che dietro questo bestiario così inquietante, fatto di peli e di grassezza, il passato divenga solo una «mesta fantasia» e il presente torni a parlare in tutta la sua sconcertante tristezza, mostrando il mondo per ciò che è: «vuoto e tondo».

Attilio Lolini, Bestiario gotico, L’Obliquo 2014, e. 11,00.

Destriero

Cantano le ore
con voce afona
e stonata

cantano alla luna
arrotolata

il pianeta s’è fatto trasparente
dentro non c’era niente

se ne va il pensiero
sopra un macilento destriero

porta da qualche parte
la nostra inutile arte.

lunedì 8 dicembre 2014

Dario Bellezza, in attesa dell'Oscar

Uscirà a fine gennaio 2015, negli Oscar Poesia Mondadori, la raccolta completa delle poesie edite di Dario Bellezza, a mia cura. Il volume ci rimetterà finalmente in contatto con una delle voci più significative e controverse della poesia italiana di fine Novecento. Bellezza è rimasto assente dalle librerie per più di un decennio: il precedente Oscar, antologico, curato da Elio Pecora, risale infatti al 2002. Una nuova generazione di lettori potrà accostarsi a queste poesie; sarà interessante verificarne le reazioni, tra vecchi e nuovi tabù e cadute ormai certe paratie ideologiche.
L'Oscar che ho curato comprenderà un'appendice di testi dispersi o inediti. Sicuramente molti amici di Dario sono in possesso di manoscritti o dediche, ma questa non sarà un'edizione critica. Mi sono limitato a raccogliere gli editi, tranne i versi per il teatro, e quanto era stato già pubblicato dal poeta in annuari e almanacchi o in plaquettes meno conosciute. E qualche inedito. Ho dato conto del movimento dei testi da queste prime pubblicazioni ai libri veri e propri. Spero che tutto ciò riaccenda un'attenzione critica che negli ultimi anni è mancata intorno a questa figura.
In attesa del nuovo Oscar, pubblico una variante inedita ritrovata tra le carte dell'artista Liliana Petrovic, amica di Bellezza. Non la troverete nel volume, dove c'è invece la versione definitiva. Si tratta della poesia alle pagine 45-46 di Libro di poesia, apparso nel 1990 da Garzanti.




Visione sacrale anfetaminica con dosi intere
di paranoia abissale coltivata nell’esercizio
impuro della ragione contro la menzognera
realtà prima che mi fece, partorendomi
ad un mondo qualsiasi, ma non mio!
Io allora vago immondo nel mondo, tutto
sembrandomi osceno, bruttamente fasullo,
finzione nevrotica la mia mancando la poesia,
il valore supremo cui sottomisi la vita;
adolescenza perduta e senza immagini, pure
prendendo un treno per Ostia rimanendo mentale,
fra ragazzi erotici e morti totali adulti
pieni di merda e di rancore!

Arrivo dunque al Battistini, fra mare e cielo
sospeso, senza immagini false e seconde
nel loro fine alla cosiddetta realtà
che non esiste. Mi ribello, io, sempre
mi sono ribellato, nello ieratico me stesso
so di avere perso la diplomatica, convenzionale
poesia, ed ora trascinandomi interno
e intero al mio sistema idiota e pellegrino
cerco di svoltare all’angolo con la buccia
di banana della leggibilità manifesta!
Ho perso tutti i sentimenti, lo sregolamento
appartenne a colui che non c’è più, e
descrivere il fuori-dentro è banale,
circonvenzione di incapace, il lettore
di testi di poesia in lingua, corruzione
di minorenne rinviata ogni giorno
nella educazione sentimentale di un reietto
depositario della verità vera di un Millennio.

lunedì 1 dicembre 2014

La Premiata Compagnia delle poete



Esiste, da qualche anno, una compagnia di poete. Anzi, una Premiata Compagnia delle poete. Un ensemble di donne poeta, di diversa nazionalità, che s’incontrano su terreni comuni e allestiscono, tra parola, movimento, gestualità, musica, delle performance, dei veri e propri spettacoli.
Che può significare tutto questo, oggi, che senso può avere una simile operazione? E come si svolge, di fatto, l’attività di questa Compagnia, anche al di là dei progetti e delle intenzioni?
Vorrei tentare qualche riflessione a più ampio raggio, cercando di inscrivere questa esperienza in una prospettiva forse più pertinente di quella della sola poesia performativa. Oggi che la prassi letteraria è sempre più riconosciuta come sistema, anzi come polisistema dinamico, in continuo movimento, è evidente che le sue metamorfosi ricadano su ciascun elemento del sistema, turbandone ciò che riconosco come il suo sonno identitario.
È uno dei grandi paradossi – o delle grandi contraddizioni – a cui accade di assistere. Da un lato ci sono fenomeni centripeti, pur diversi tra loro, come la globalizzazione i flussi migratori; dall’altro, a fronte delle inevitabili trasformazioni dei modelli culturali che tali fenomeni provocano, si avverte l’arroccarsi su posizioni che hanno chiari limiti ideologici e teorici, specie se ne consideriamo la dimensione nazionale, o addirittura infra-nazionale. Da parte mia resto convinto che chi continua a discutere affannosamente di canoni e identità, in letteratura, e dall’interno delle prospettive nazionali, non solo non abbia compreso cosa significhi la libertà per un artista moderno (termine, quello della libertà, che ritrovo felicemente tra le pagine di poetica della Compagnia delle poete: pagine di poetica libera), ma che abbia anche difficoltà a comprendere la complessità del presente e la dimensione pluriculturale in cui ci troviamo. Temo, infine, che questo arroccarsi non permetta di inquadrare la portata effettiva dei problemi posti dalla letteratura odierna e che il modo di trattare tali problemi sia condizionato da visioni non più condivisibili, ormai estranee ai modelli espressivi, comunicativi, ermeneutici della modernità.
Non sussistendo più poetiche normative, com’era nell’età della tradizione, definitivamente pensionata dalle avanguardie (ed essendo Dio morto, nel frattempo), mi chiedo che valora possa avere, oggi, tornare a parlare di canone. I principali attori della discussione sono, perlopiù, presi dal problema di cosa inserire negli aggiornamenti dei loro manuali scolastici. Quanto all’identità, mi sembra che sia completamente trascurato l’aspetto dialogico-narrativo e anche mistificante della questione. L’identità non è una monade, ma un problema che si articola attraverso tre livelli: ciò che si vuole essere, ciò che si vuole mostrare, ciò che l’altro percepisce di noi. Ecco il cuore del problema: l’identità come narrazione all’altro. Senza questo interlocutore non esistono identità, ma monadi destinate a un desolato solipsismo; senza questo interlocutore, ogni rilievo in merito all’identità si rivela una triste tautologia.
Penso, in particolare, alle letterature della migrazione: non dovrebbero più esistere come categoria a sé, ma dovrebbero far parte del polisistema che chiamiamo – seppure impropriamente, considerati i fenomeni a cui ho fatto accenno – “letteratura italiana contemporanea”. Un polisistema decisamente e fecondamente arricchito dagli apporti – di lingua e di immaginario – di autori che hanno scelto l’italiano per esprimersi, pur non essendo la lingua del loro modello culturale di partenza, ma che attraverso questa scelta contribuiscono alla creazione di un nuovo e più ampio modello transculturale.
Siamo trascorsi, negli ultimi cento anni, dall’«Io è un altro» di Rimbaud a «Io è gli altri»; e questa necessaria, inevitabile pluralizzazione – che risponde anche, e non solo, ai movimenti della Storia – si è ulteriormente evoluta in un’affermazione che potrebbe essere proprio la risposta a un processo di narrazione identitaria. Raccontami chi sei: io è più altri, diversi altri.
Credo che questa possa essere la vera fotografia della letteratura attuale, nei cui margini ben si inserisce l’attività della Compagnia delle poete. Leggendo le loro dichiarazioni di poetica (ma temo che, quanto a “dichiarazione”, si tratti di un termine improprio) mi accorgo che dietro deve esserci stata la richiesta implicita di ricondurre il lavoro a tre parole chiave. Cerco di ripercorrerle. Per Mia Lecomte queste parole corrispondono a “casa”, “famiglia”, “libertà”, e preciso che è la terza a sostanziare le prime due. Helena Paraskeva identifica le tensioni della sua scrittura con il vento del Meltèmi, vento dall’azione ossimorica. Jacqueline Spaccini parla di “singolarità”, “insieme”, “gioia”; Sally Read di “lingua”, “vita”, “corpo”. E quest’ultima parola ritorna tra quelle proposte da Brenda Porster: “corpo”, “ponte”, “scoperta”. Ancora “libertà”, ancora “corpo”, e “corridoio” (possibile alternativa di “ponte”) sono nei versi di Laure Cambau. Eva Taylor specifica ulteriormente l’immagine e parla di un ponte Bailey, «quello che sembra provvisorio ma rimane». Candelaria Romero parla di “viaggio”, “compagnia”, “avventura”; Barbara Serdakowski di “senso”, Adriana Langtry di “specchio”, “sponda”, “segno”. Infine Barbara Pumhösel e Melita Richter si rifanno, rispettivamente, alle parole “equilibrio”, “filo”, “sinestesia” e a “Europa”, “paese”, “fuori orario”. Traggo queste informazioni dal libro di Francesco Armato, Premiata Compagnia delle poete, edito da Iannone.
Questo pur rapido elenco di parole-concetto è davvero un sistema. Molto compatto, aggiungereu, in cui le immagini travasano di poeta in poeta ma restano in definitiva ancorate a quel concetto mobile e plurimo di identità da cui ho preso le mosse. Raccontami che sei. Io è un ponte, un corridoio, che chiunque può percorrere  alla ricerca di segni e sensi, spinto da un inarrestabile Meltèmi, che distrugge – o vorremmo che distruggesse – i nostri pregiudizi e le nostre certezze così relative, facendo delle nostre esistenze non dei dogmi ma un bene da condividere, un tesoro da spartire, e che più spartiamo più ci fa ricchi.
Allora l’attività di una Compagnia delle poete non è solo la benvenuta, ma diviene anche necessaria, poiché si fonda sul dialogo, sull’assimilazione, sul contagio. Vorrei che fossero definitivamente trascorsi i tempi – tristissimi – in cui autori provenienti da altre culture, portatori di vitalità e fermenti, sono stati rimossi, come se non fossero mai giunti qui. Penso fra tutti a Juan Rodolfo Wilcock, argentino, che dagli anni Cinquanta alla morte, nel 1978, è vissuto in Italia, ha partecipato al dibattito letterario, ha scritto in più generi libri dominati da un’ironia sapiente. Difficilmente lo troverete nei manuali di letteratura, se non in qualche nota marginale, magari come traduttore di Marlowe e di Joyce.

Questo modo di storicizzare non è più tollerabile, perché, semplicemente, non è vero, non rispecchia la vivacità di quanto accade. Grazie, allora, alla Compagnia delle poete, per il lavoro di ricucitura culturale che vanno compiendo: un segnale fondamentale, che ci viene dalle donne.