domenica 20 luglio 2014

AILANTO n. 3 - Su Jorie Graham







Credo che il primo problema rappresentato dalla poesia di Jorie Graham, per il lettore italiano, sia quello di una sostanziale alterità rispetto ai modi della nostra tradizione lirica, alla sua musicalità intrinseca, alla disposizione al canto, a una capacità introspettiva che cerca di assumere un piglio diaristico o comunque narrativo, anche attraverso minime sequenze. Con Place, abilmente tradotto da Antonella Francini sotto la supervisione dell’autrice, Graham torna a disattendere la nostra ricezione forse un po’ abitudinaria, invitandoci a entrare nella complessità di una scrittura che ama spesso tornare su se stessa, riavvolgersi nella corrente di pensiero che la sostiene; una scrittura dove il verso lungo, tipico della poesia americana, si addensa improvvisamente in misure più brevi, concentratissime, per cui le immagini possono come implodere proprio mentre si dispiegano, e poi lasciare il campo a quelle successive. Sembra di assistere alla mimesi di un movimento a onde, di ritornare, pur nella concentrazione della poesia, a quella forma già sperimentata da Virginia Woolf; anzi, l’impressione che la risacca delle immagini poteva provocare in quel libro mirabile, qui diviene sostanza stessa di questo versificare per noi così imprevisto e arduo.
Ma Jorie Graham non concede nulla al lettore tiepido che si assesta intorno alle proprie certezze, a quell’assenza di sorprese che ogni tanto segna i panorami poetici di una nazione. Chiede, invece, un surplus di attenzione e di partecipazione, costringendoci a tornare sulle sue volute, sulle sue densità, a leggere e a rileggere fin quando, improvvisamente, alcuni nuclei tematici cominciano a emergere in mezzo ai flutti. Continuo a usare il moto marino come possibile metafora critica, ma è lo stesso Place ad autorizzarmi, pieno com’è di tali immagini, alluse o dirette: il mare come immenso serbatoio primigenio, come luogo dell’informale, come accoglienza o come antagonismo parla attraverso questi lunghi testi, consentendoci comunque di riavviare un discorso sulla ciclicità e sul divenire, che con ogni probabilità la poesia europea ha interrotto dopo Valéry, Eliot, Montale. Perché molte delle immagini di questo libro convergono decisamente verso un grumo, direi quasi un archetipo che ci riconduce all’alba stessa della grande poesia moderna: ovvero il tema dell’anteriorità, di ciò che Vico e Leopardi potevano declinare come rapporto mitico, schietto e primitivo (nel significato più alto e ampio) con la natura e con le sue espressioni, e dentro la cornice di un linguaggio comune, condiviso. Baudelaire chiamerà questo tema la vie antérieure: una zona difesa da un margine preciso, da un confine che sta al di qua della lingua e al di là della cultura che la supporta. Un luogo delle origini.
Place è uno di quei titoli semanticamente assoluti, accanto ai quali non è possibile accostare nulla. Anche la traduzione italiana, che gli affianca una determinazione («Il posto») sconta l’impossibilità di rendere un concetto chiuso dentro le parentesi di un’epoché: il «dove», il «lì» che è anche un «qui», l’ubi consistam declinato a quel passato remotissimo, che solo le pareti scoscese della memoria e dell’affettività – i soli vettori in grado di farci trascendere il presente e di proiettarci nel nostro place – possono farci intuire. E questo, forse, spiega anche il continuo ricorrere di Jorie Graham a storie e vicende famigliari, solo apparentemente circoscritte, e destinate invece ad assecondare il moto ondivago del pensiero.

Jorie Graham, Il posto, trad. di Antonella Francini, Mondadori 2014, e. 18.00




Da Cagnes sur Mer 1950
[…] Così qui, io di nuovo
rileggo il libro del tempo,
il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui
natura non so rintracciare – o la forma – o l’origine –
prendo la creatura e la riporto
nel posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa
e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima –
che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto
quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro
quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie,
stupori – che io non sprechi gli stupori –
che non uccida per errore fratello, sorella – mi
siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio,
macchia scura dove una storia non diventa ancora un’altra,
e parole, non giunte a me ancora, ancora non proveranno a dirmi
da dove vengono le cose, né dove vanno,
dove risplenderà il flusso dell’inclinazione

nella sua veloce discesa.

lunedì 14 luglio 2014

AILANTO n. 2 - Su Roberto Maggiani






Si comprende come Roberto Maggiani, poeta che appartiene alla fitta schiera dei letterati scienziati, abbia avuto bisogno di ricorrere ad Aldous Huxley per l’esergo del suo nuovo libro, La bellezza non si somma: «L’occhio contemplativo può posarsi su qualsiasi oggetto e vedere in esso, come da una finestra, tutto il cosmo…». In realtà, nella stessa prospettiva, sarebbe stato più che sufficiente il Leopardi dell’Infinito, per restare tra le nostre pareti: alla specie del «sedendo e mirando», infatti, sembra proprio ricondursi la percettività di questi versi, così pienamente descrittivi, con un andamento espressamente diaristico, al punto da registrare non solo la data ma anche l’ora della scrittura o dell’evento che l’ha ispirata. Così, ad esempio, può accadere che alle sette e trenta del mattino, su una spiaggia, ci si imbatta in una coppia di slavi: «Lui si siede su un trono improvvisato - / mangia osservando il suo dominio marino». Non c’è una siepe, però, a impedire la vista, che qui può liberamente spaziare sulla distesa d’acqua, riducendola giustamente a «dominio», a un paesaggio che esiste solo perché un soggetto lo sta osservando (chissà se Maggiani non abbia anche pensato a un’altra tradizione, quella che dal primo Montale, grande osservatore del mare, indietreggia fino al Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer).
Questo, credo, sia il centro della questione: la poesia di Maggiani, in questo volumetto, non esibisce né accenna alcuna trascendenza, la lascia piuttosto intuire: come a dire che l’azione contemplativa si assesta intorno alla superficie dell’oggetto, quasi si trattasse di un prisma in grado di rifrangere ed evocare una realtà più ampia. Quella che in poesia sta, o dovrebbe stare, nello spazio tra le parole, dietro le parole, come ricordava Brodskij. Accade a ogni pagina: c’è un avvio di narrazione, si prepara un microevento, la poesia si struttura come una sorta di epifania minimalista, ma Maggiani ammette di non riuscire «ad andare così a fondo / come certi poeti o scienziati». Resta fuori dall’oggetto, non si proietta né dentro né oltre. È in realtà una precisa scelta prospettica, piuttosto che un limite, e l’autore ne è consapevole; del resto Savinio insisteva sull’«intelligenza della superficie» e questa posizione, direi questa focalizzazione, è necessaria perché, come si dice negli ultimi versi, ci sia ancora una «verità nascosta» da pagare.
Un perfetto parallelismo ricorre tra l’assioma del titolo e quello della poesia di chiusura: come non si può sommare la bellezza così ciò che resta vero e celato «si paga». Ma in cosa consiste questa verità che talora sembra «emergere», o «galleggiare» dietro la linea della «distesa azzurra»? Non certo nella sessualità, che è invece chiaramente – ed elegantemente – esibita.  Per il poeta-scienziato (Maggiani proviene da studi di fisica) anche l’eros è uno dei tanti epifenomeni del quotidiano; dunque, dietro l’apparenza del bozzetto, sotto le sue rapide pennellate imagiste, c’è un altro «giacimento» che rimane segreto, inespresso, appena accennato, perché possa ancora rappresentare un polo di tensione possibile. E lo si paga, naturalmente, con la poesia.


Roberto Maggiani, La bellezza non si somma, Ancona, italic, e. 12,00.


In treno

Avrò pisciato per almeno un chilometro -
nel buco della tazza
vedevo correre le rotaie.

Dal finestrino scorgevo -
dietro case e alberi in corsa -
una linea blu
simile a un fiume che ingrandisce
fino a sfociare nel mare:
la distesa azzurra 
in cui tutto sprofonda -
sono poche le cose
che galleggiano.

martedì 8 luglio 2014

Parte Ailanto, rubrica di segnalazioni di poesia. Su Franca Grisoni

Oggi do avvio a una rubrica di letture di libri di poesia all'interno del blog. Lo faccio da qui, piuttosto che da giornali o riviste (esiste già il «Periscopio» su «Poeti e poesia», di cui mi occupo) per sentirmi più libero nelle scelte e per non avere obblighi di scadenze. Del resto i libri che ci fanno saltare sulla sedia non hanno scadenze, al contrario ci costringono a riaprirli. Non posso sapere se tutti i libri di cui scriverò sono di quella specie, ma voglio comunque condividerli e segnalarveli. Il titolo si riferisce all'ailanto, l'albero del Paradiso, perché cresce così alto da toccare il cielo. Ed è invasivo, come vorremmo tutti che fosse la poesia.


L’esperienza della malattia, diretta o indiretta, muta irreversibilmente il nostro orizzonte di comprensione del mondo, apre un varco, un «uscio» verso una prospettiva diversa. È come osservare lo stesso paesaggio, ma da un’altra finestra. Emergono particolari, colori, storie. Anche dolori. L’ös, l’uscio, è il titolo che Franca Grisoni ha scelto per il suo ultimo libro, pubblicato nelle belle edizioni L’Obliquo di Brescia. Franca Grisoni è uno dei poeti che seguo e amo particolarmente, a dispetto della sua lingua (il dialetto di Sirmione), che mi costringe a leggere la versione italiana a fondo pagina. Ma è uno sforzo che ricompensa. Aveva ragione Cesare Garboli nell’indicare in quest’autrice una potenza espressiva davvero rara, raggiunta con pochi mezzi, semplici quanto essenziali. A questa scrittura, già così scarna, non si riesce davvero a sottrarre nulla, l’asciuttezza è il suo tratto immediatamente visibile. E udibile, per chi sappia cogliere i suoni di quel dialetto.
La malattia, dicevo, è il tema portante di questo libro, ma ne è anche il vettore percettivo, poiché spinge il lettore a spostare di continuo il proprio assetto di valori e pensieri intorno ai mali del corpo. La fisicità, altro elemento che collega il lavoro di Franca Grisoni, di libro in libro, è qui piegata dall’incombere del male, anche nella specie della vecchiaia e dell’abbandono, e diviene per il poeta qualcosa di strumentale, uno scandaglio nei recessi più dolorosi della corporalità. Ma non è solo il male a emergere dal male: Grisoni sa andare ben oltre le facili tautologie e fa della malattia e del decadimento occasioni straordinarie per disegnare un paesaggio diverso, dove la repulsione o la curiosità di superficie possono lasciare ancora spazio alla reciprocità, alla pietas nel senso più alto. Trascrivo direttamente in traduzione: «I buchi dei chiodi freschi / me li fai toccare?». Ecco, in questa passione che è per il poeta ampia quanto un orizzonte evangelico e che abbraccia una geografia umana e permea di quella sostanza («Qualcosa, come chiamarlo?») in cui tutti possiamo infine riconoscerci, Grisoni individua il nucleo di una pienezza ancora possibile, che contrasti il «vuoto» (termine ricorrente di queste poesie) del male, quando occupa il corpo e lo disfa.
L’«uscio» è una via di collegamento, una soglia che si può percorrere da una direzione all’altra, almeno sul piano della scrittura. È quello che accade in questi versi, dove la concretezza può spesso cedere a una tonalità mistica, senza per questo perdere nulla. Del resto, a quella tradizione Grisoni attinge spesso, reinventandola a suo modo, traducendola modernamente in rapporto, relazione, empatia.


Franca Grisoni, L’ös, nota introduttiva di Marco Trabucchi, Brescia, Edizioni L’Obliquo, 2013, e. 13,00.




martedì 1 luglio 2014

Un pensiero per Maria Luisa

Al telefono con Elio, stamattina, come di consueto. Per mantenere un filo con Roma. Ma oggi il bollettino è triste: Maria Luisa Spaziani ci ha lasciato. Così, all'improvviso. Per come l'ho conosciuta, so bene che non aveva alcuna intenzione di andarsene: farlo in questo modo, quasi di nascosto, nel mezzo dell'estate, ha tutto il sapore dell'imprevisto, del non voluto. Certo, la morte è sempre imprevista e non voluta, ma nel caso di Maria Luisa doveva esserlo ancora di più. La sua vitalità  intellettuale, la sua curiosità delle persone, del lavoro altrui, erano il segno chiaro del suo voler restare, del suo condividere esperienze. La sua attenzione era un dono raro.
È stata l'ultima persona, tra quelle che ho avuto la fortuna di incontrare, a conoscere a fondo l'arte della conversazione. Con lei i discorsi potevano fermarsi sull'attualità come sulle questioni più difficili e intime del fare poesia: Maria Luisa non si sottraeva mai, anzi accettava la sfida e la provocazione, sempre pronta a dare il suo punto di vista. Qualche volta amava il bluff, o si divertiva a spiazzare il suo interlocutore, specie con gli estranei, con chi s'imbatteva in lei la prima volta: era il suo modo per capire chi le stava di fronte. Non per giudicare, ma per calibrare meglio il suo dire.
Era dentro se stessa, Maria Luisa, e ben consapevole di esserlo, come di essere una delle ultime figure di una società, per la quale la cultura era un valore assoluto, anzi il valore. Poteva apparire come una regina goffa, ma pur sempre affabile e disponibile nella sua cortesia piemontese. I toni aggressivi non erano per lei.
Due persone, a Roma, riuscivano sempre a mettermi di buon umore: Dario Bellezza, con le cronache dei suoi scombinatissimi incontri notturni, e Maria Luisa, con i suoi aneddoti, le sue storie, la sua profonda ironia. All'assenza di Dario non mi sono ancora abituato, e adesso si aggiunge quella di Maria Luisa. Anche se i nostri contatti si erano fatti necessariamente più radi, negli ultimi anni, il ricordo dei nostri incontri e delle nostre conversazioni è rimasto come una compagnia, pur nella lontananza. Della sua poesia non voglio dire nulla, oggi: parla da sé, nel Meridiano Mondadori che la raccoglie e che abbiamo festeggiato insieme due natali fa e ottimamente curato da Paolo Lagazzi e Giancarlo Pontiggia.
Ciao, Maria Luisa, grazie per aver fatto un po' di strada con me.