venerdì 24 ottobre 2014

Nicola Romano su Solstizio

Posto una recensione di Nicola Romano a Solstizio, apparsa in «Quaderni di Arenaria», nuova serie, vol. VI, 2014.


Concettualmente articolata sulla ciclicità e sull’ambivalenza dei solstizi,
questa nutrita raccolta di poesie di Roberto Deidier giunge a meglio
comprendere gli aspetti più nascosti e, quindi, più avventurosi
dell’esistenza, attraverso una parola che s’impregna del proprio tempo e
delle sue infinite tensioni, per esprimerlo a pieno dentro composti itinerari
interiori che, con una puntualità d’osservazione, rivelano la magmatica
condizione dell’essere che si confronta con la variegata gamma dei contatti
del vissuto. Le sette sezioni che compongono l’ordito strutturale della
raccolta, in buona sostanza vanno a formare un unicum che vuole
confrontarsi con un probabile «luogo» dove assemblare e all’occorrenza
aggiustare le sensazioni e le memorie, al fine di decodificare la varietà dei
palpiti che afferiscono alla naturale pulsione del vivere. In tal senso
troviamo Deidier a giostrare con mestiere tra uomini e cose, offrendo così
ampi spazi meditativi al dialogo tra l’io narrante e il mondo esterno, un
dialogo che inevitabilmente permeato da un sottile risentimento mette in
evidenza le immancabili lacerazioni del quotidiano. Tra saltuari segmenti di
richiami storici o biblici, il presente sembra a tratti flettersi nel passato per
poi tornare con la vividezza delle sue inquietudini e delle sue particolari
analogie con il mondo attuale sempre più intaccato dalle contingenze extraumane.
Molto deliziosi gli endecasillabi della sezione dedicata a Palermo
sua città adottiva che, come l’alternanza dei solstizi, sa porgere all’autore

taluni sensi di vuoto e di ricchezza.

Nicola Romano

giovedì 23 ottobre 2014

venerdì 17 ottobre 2014

AILANTO n. 9 - Su Seamus Heaney



Oggi che possiamo leggere nella sua interezza Morte di un naturalista, suo lontano libro d’esordio, il cerchio che Heaney ha disegnato lungo la sua intera vicenda di poeta sembra essersi definitivamente chiuso. Marco Sonzogni, che di questa edizione firma la traduzione e la nota finale, cita molto opportunamente alcuni richiami evidenti all’ultimo libro, Catena umana, ricordando spesso, però, che altri e non meno evidenti richiami percorrono anche le altre raccolte di quest’autore, componendo dei veri e propri microsistemi semantici, fatti di allusioni, citazioni, riprese di immagini a distanza. Il movimento conclusivo di questo percorso, tra i più suggestivi dell’ultimo Novecento, è dunque un perfetto salto all’indietro, una vorticosa capriola lì dove tutto era cominciato, nei vibratili anni Sessanta; ma non si tratta tanto di un ritorno all’origine, quanto del perseguimento di una coerenza interna, del riconoscimento all’interno del proprio cielo poetico di alcune stelle fisse, che sono tornate in più momenti a illuminare la notte espressiva di Heaney.
È proprio dal buio, infatti, che questa poesia prende le mosse. La metafora che meglio la identifica, quella dello scavo (digging), annuncia l’attraversamento dell’oscuro e la possibilità, attraverso l’elaborazione della scrittura, di riconsegnare alla luce del giorno un paesaggio ctonio. L’impressione è quella di un’ennesima azione orfica, forse un po’ anacronistica nel cuore di una postmodernità che privilegia piuttosto le poetiche della superficie, dell’effimero, del superfluo. In realtà Heaney è un poeta perfettamente allineato al suo tempo e la sua personale impresa non intende fronteggiare alcun mistero. La materia che viene via via scoperta è appunto tale, un grumo di rappresentazioni e immagini concrete, sulle quali la penna (la “vanga”, nella superba metafora che la identifica) interviene plasmando un piccolo universo parallelo, una dimensione trascendente dove la paura, grande motore di tutta questa poesia, può essere affrontata, liberata o forse addomesticata.
All’elusività dei simboli che la tradizione, anche italiana, gli offre (Pascoli, anzitutto, o il primo Ungaretti del Porto sepolto) Heaney ha preferito una densità metaforica che si risolve perlopiù nella descrizione invece che nell’evocazione. Quasi tutti i testi di Morte di un naturalista seguono questa scelta, o predisposizione: il poeta sa bene che la lingua è uno strumento da governare, e pure laddove evoca o suggerisce (si veda la bellissima Impalcatura, o la successiva Tempesta sull’isola), riesce a far emergere con una certa chiarezza la figura che manca e che pure si forma sotto i nostri occhi. Dietro la promessa coniugale, o il «grande nulla» che si affacciano dai versi di queste poesie, il lettore può intravedere quel punto di tensione, da dove la scrittura di Heaney trae la propria origine e la propria forza: la lingua come energia plasmante, come vortice metaforico che segue i contorni di ciò che normalmente resta sconosciuto, come nel gioco enigmistico delle linee da tracciare tra un punto e l’altro. La metafora, insomma, non come complessità, ma come scioglimento, come dimensione di un buio senza più paure.

Seamus Heaney, Morte di un naturalista, trad. di Marco Sonzogni, Mondadori 2014, e. 17,00.

San Francesco e gli uccelli

Quando Francesco predicò l’amore agli uccelli,
loro ascoltarono, svolazzarono, scattarono
alti nel blu come uno stormo di parole

liberate in allegria dalle sue sante labbra.
Poi una virata, ed eccoli di nuovo frullare sul suo capo,
piroettare sulle cappe dei fraticelli,

danzare in volo, per pura gioia giocare
e cantare, e come immagini prendere il volo.
Fu la poesia più bella di Francesco,


vera nel ragionare, lieve nel tono.

mercoledì 15 ottobre 2014

Ricordo di Piero Bigongiari



Dovevo trovarmi al Teatro Studio di Scandicci, ieri sera, per un omaggio a Piero Bigongiari nel centenario della nascita, ma non ce l'ho fatta. Ho scritto però un breve ricordo che ho inviato a Paolo Fabrizio Iacuzzi, organizzatore dell'evento.

Ho conosciuto Piero Bigongiari nella seconda metà degli anni Ottanta, non saprei dire con più precisione: quando, su invito di Maria Luisa Spaziani, veniva a Roma, a piazza Campitelli, a tenere conferenze per la cattedra di poesia del Centro Montale. Con ogni probabilità fu Maria Luisa a presentarci. L’ho incontrato meglio, in compagnia della moglie Elena, a Perugia, alla fine di settembre del 1990, dove li avevo raggiunti con Elio Pecora in occasione di un convegno su Sandro Penna: ho la loro immagine precisa, questa volta, nel ristorante dell’albergo La Rosetta, allo stesso tavolo con Oreste Macrì. Il nostro piccolo carteggio, di cui resta qualche traccia fra un trasloco e l’altro, era già cominciato. Quell’anno, infatti, avevo pubblicato una sua poesia in un piccolo quaderno di poeti che stampavo con l’amica Marina Guglielmi, «Trame». Era il numero tre, datato maggio, e Bigongiari lo apriva. Gli avevo scritto in gennaio o febbraio, chiedendogli un testo, e lui, a metà febbraio, aveva cordialmente risposto ricordandosi di me e della promessa. In quello stesso quaderno appariva, tra le altre, una poesia di Antonio Riccardi.
Quando lo raggiunsi al tavolo per salutarlo, mi rispose così: ecco il mio più giovane editore. E in questa veste insolita mi presentò a Macrì, che subito prese a parlarmi di un suo libro inedito su Penna, pensando che fossi un editore vero. L’equivoco fu chiarito, per mia fortuna e non senza sollievo. I tre giorni trascorsi con loro ad ascoltare gli interventi del convegno, o insieme al ristorante a discutere di novecento, mentre giudicavamo i piatti che ci venivano proposti, mi restituiscono ancora di lui un’immagine allegra e cordiale, all’opposto dei ritratti seri e pensosi che mi aveva fatto Maria Luisa; e lei, al mio ritorno a Roma, dubitava dei miei racconti: ma è proprio Piero quello che hai conosciuto? Anche sua moglie condivideva quell’allegria, quel clima di simpatia e di vitalità che s’era acceso tra noi.
Non lo avrei più rivisto, purtroppo. Dopo Perugia, i nostri contatti si limitarono alle lettere. Ancora nel ‘91 mi inviò alcuni degli Sketches che andava scrivendo in quel periodo, sempre per «Trame»: ne pubblicai uno nell’ottavo quaderno del giugno ’92. Quell’anno apparve da Mondadori La legge e la leggenda, e avendo avuto dall’inserto «Spaziolibri» de «La voce repubblicana» la possibilità di scrivere quel che volevo, mi affrettai a recensirlo. Bigongiari non tardò a rispondermi che per lui era stata la recensione più bella. Lo racconto perché quel riconoscimento critico – da un poeta, ma anche da uno dei maggiori studiosi della modernità poetica – è stato fondamentale per me, una vera infusione di sicurezza, un incoraggiamento a proseguire nell’occuparmi della poesia altrui. Quello che sarebbe divenuto, nel tempo, il mio «terzo mestiere».
Cosa potrei proporvi, di lui, se non qualcosa di cui ho avuto la ventura di essere “editore”? La poesia, se non ricordo male, fu poi inclusa ne La legge e la leggenda, ma mentre scrivo non ho il libro con me e non potrei giurarlo: l’infaticabile e informatissimo amico Iacuzzi potrà confermarvelo. Il titolo è Spes paenultima dea. Bigongiari mi scriveva in proposito: «le accludo questa favoletta sperando che non le dispiaccia». Ma di favole si ha sempre bisogno, e non solo a vent’anni. Grazie, carissimo Piero.

«Senza speranza, come puoi campare?»
disse una volta un granchio di mare
a un suo compagno che andando sbilenco
punteggiava la spiaggia con la lenta
grafia delle sue zampe verso una
poco distante duna. Ed ecco a un tratto
che l’ondata raduna i due viandanti
e un po’ li travolge, un po’ li porta
verso la battima sonora. «Vedi,
è questa la speranza: improvvisa
ti distoglie mentre più ti allontani
da lei» rispose l’altro al compagno
che rivoltato dall’ondata stava
a zampe all’aria. «Sì, ma essa ti toglie
talvolta il modo anche d’allontanarsene,
anche se essa non è mai l’estrema»
il primo farfugliava tra le sparse
pozze che luccicavano qua e là
prima che le riassorbisse la rena.

Spes paenultima dea… In quell’istante
lassù in alto un aereo della BEA
lascia una striscia sottilmente bianca
nel sole ultimo, troppo alto pei granchi,
nebulosa nei suoi recessi azzurri.
L’uno s’affretta di tralice, l’altro
attende che lo volti un’altra ondata.

martedì 14 ottobre 2014

Antonio Fiori su Solstizio

Posto una recensione di Antonio Fiori su Solstizio, apparsa su facebook. Grazie!


Solstizio, l’ultima raccolta poetica di Deidier, è un'autoantologia che sfida il lettore alla ricostruzione di luoghi ed eventi, a riconoscersi pure, ogni tanto, ma anche a stupirsi, impegnarsi a riscrivere la 'propria' poesia Latore di luoghi, età, momenti diversi, è qui lo stesso autore a cercarsi, sin dall’inizio: “Sono fermo non so dove e non ho occhi”. Certo “La vita chiama/ di là dalla parete dell’istante” ma c’è una voce coscienziosa che invita a resistere: “Resta qui” ripete la mia voce”. Una poesia dunque che esita, consapevole di quanta fatica e di quante ferite riservi la vita, del suo dover essere all’altezza del compito.
Il poeta, nella sezione centrale della raccolta - ‘La fossa dei leoni’ - da voce a grandi personaggi biblici, esercizio prezioso per radicare e rinforzare la parola (“partivo senza bagagli di parole”); il risultato, alla fine, è omaggio anche a Lee Masters.
Ma per un ritratto di Roberto Deidier, invito a recuperare sia i luoghi di questa poesia (“la città vista in sogno”, “la città dai fiumi interrati”, Mantova, Palermo – “città del doppio regno” - e ancora stanze, letti, scorci, vedute e “questa casa, sono stato questa casa”), che gli incontri di cui è debitrice, amorosi e non, registrati con mutevolezza di toni e di stile. Affiora ogni tanto Raboni: “Se mai accadesse di trovarmi a scoprire/ Il nome vero del gioco che facciamo/ Fuggirei da te come da troppa luce”; “Per averti dissimulo l’averti”. Ma spesso il verso d’amore è semplice, quasi dimesso: “Sembra dire e intanto fissa un punto/A lei sola noto. Tra il corpo/ E il giorno, dove non sa dormire/ L’esperienza di un’arte proibita.//Quelle labbra serrate ancora sporche/ e lo sbavo del trucco sulla guancia”. E all'improvviso, ancora quella voce, bussola con cui non si discute: “…e una voce conosciuta/ da qualche luogo interno ti richiama”.
Il poeta, infine, nell’ultima sezione, totalmente metapoetica, si riconcilia con la sua Musa, e da un pregresso - “Chiudo la porta e so che non ritorno” - Solstizio si conclude con questo verso umile, rivolto alla Poesia: “Ti chiedo a voce bassa di tornare.”. Ed anche il buon lettore, ultimata la lettura di Solstizio, sente di dover tornare: i sopralluoghi infatti riservano sempre sorprese e nuovi significati.


sabato 11 ottobre 2014

AILANTO n. 8 - Su Marcia Theophilo



Il mondo poetico di Marcia Theophilo è un cosmo di memorie. Il suo ambiente, la sua dimensione più autentica è infatti quella della foresta amazzonica, ovvero di un habitat perennemente assediato, messo in crisi, sfruttato e annientato. Ciò di cui il poeta parla, canta, è destinato a rimanere sulla pagina nella forma di un racconto mitico, che non appartiene più al presente o al futuro, e neppure al passato più prossimo. Giustamente in questo nuovo libro, Amazzonia. L’ultima Arca, si parla di «archeologia amazzonica», di una percezione della grande foresta condizionata dalla sua incessante metamorfosi in negativo: delle immagini, dei riti, dei colori, dell’immensa varietà di animali e di alberi si potrà parlare, d’ora in poi, come se si fosse trattato di un sogno, di qualcosa che si potrà ricostruire solo attraverso le congetture dello scavo. Nella specie di ciò che più caratterizza i nostri desideri, il sogno appunto, Marcia Theophilo esprime invece la sua denuncia.
Non è la prima volta, nella vicenda di quest’autrice: anzi, tutta la sua poesia è votata, da sempre, al lamento civile per una felicità edenica, per un modello di cultura che non ha più spazio nel secolo della globalizzazione. E quella cultura è tutt’uno con l’ambiente in cui si è prodotta: nella lingua poetica di questi brevi canti, infatti, non c’è soluzione di continuità tra ciò che appartiene al naturale e ciò che appartiene all’umano. I suoni del portoghese brasiliano si fondono inevitabilmente con quelli delle lingue indie, con il loro immenso repertorio di dèi, di animali, di miti, e tutto ciò giunge all’orecchio europeo come un mantra magico, come una splendida fusione di ciò che la storia ci riconsegna attraverso i suoi strati. Anche il plurilinguismo, dunque, riconduce il lettore verso l’archeologia, mentre i tetri cromatismi della deforestazione prendono il posto dei mille verdi, e il sole – nuovamente testimone del disastro, com’è in tutta la tradizione poetica dell’occidente – illumina un paesaggio infernale, di brace.
Di quell’inferno Marcia Theophilo registra e riporta le seduzioni e gli inganni e ne affronta nella mimesi della presa diretta, con l’occhio dell’antropologo che si è fatto poeta, tutto il triste, tragico carico di mortalità: «Ecco apparire le ombre / la tempesta lambisce gli animali / uragano». L’arca biblica, strumento di salvezza e di protezione delle specie, è qui rovesciata di segno, è il mezzo che trasporta una modernità che uccide, una cultura dominata dall’interesse.  Le voci della vita si tramutano in urla, la distruzione domina e occupa per intero la visione dall’alto del poeta, nuovi e più drammatici animali meccanici riempiono lo sguardo su un paesaggio apocalittico. Con questo poema, scandito attraverso duecentocinquantanove tesissime lasse, ci è stato consegnato l’estremo epicedio di un mondo simbolico, icona stessa  sia di uno spazio vitale e necessario, sia del resistere della poesia.

Marcia Theophilo, Amazzonia. L’ultima Arca, prefazione di Walter Pedullà, Passigli 2013, e. 16,50.

Infinite colonne di formiche
colonne interminabili di auto

Uccelli volanti
macchine volanti

Foltissime foreste,
bruciano gli alberi
spogliati delle foglie

I vincitori
rimangono in possesso


Di un luogo devastato.

sabato 4 ottobre 2014

Massimo Stella su Solstizio

Posto una recensione di Massimo Stella a Solstizio, apparsa su «il manifesto-Alias» del 28 settembre: Stella è riuscito a raccontare i movimenti interni del libro con il virtuosismo della brevità. Gli sono particolarmente grato per questo, per ciò che dice e per come lo scrive.