venerdì 17 ottobre 2014

AILANTO n. 9 - Su Seamus Heaney



Oggi che possiamo leggere nella sua interezza Morte di un naturalista, suo lontano libro d’esordio, il cerchio che Heaney ha disegnato lungo la sua intera vicenda di poeta sembra essersi definitivamente chiuso. Marco Sonzogni, che di questa edizione firma la traduzione e la nota finale, cita molto opportunamente alcuni richiami evidenti all’ultimo libro, Catena umana, ricordando spesso, però, che altri e non meno evidenti richiami percorrono anche le altre raccolte di quest’autore, componendo dei veri e propri microsistemi semantici, fatti di allusioni, citazioni, riprese di immagini a distanza. Il movimento conclusivo di questo percorso, tra i più suggestivi dell’ultimo Novecento, è dunque un perfetto salto all’indietro, una vorticosa capriola lì dove tutto era cominciato, nei vibratili anni Sessanta; ma non si tratta tanto di un ritorno all’origine, quanto del perseguimento di una coerenza interna, del riconoscimento all’interno del proprio cielo poetico di alcune stelle fisse, che sono tornate in più momenti a illuminare la notte espressiva di Heaney.
È proprio dal buio, infatti, che questa poesia prende le mosse. La metafora che meglio la identifica, quella dello scavo (digging), annuncia l’attraversamento dell’oscuro e la possibilità, attraverso l’elaborazione della scrittura, di riconsegnare alla luce del giorno un paesaggio ctonio. L’impressione è quella di un’ennesima azione orfica, forse un po’ anacronistica nel cuore di una postmodernità che privilegia piuttosto le poetiche della superficie, dell’effimero, del superfluo. In realtà Heaney è un poeta perfettamente allineato al suo tempo e la sua personale impresa non intende fronteggiare alcun mistero. La materia che viene via via scoperta è appunto tale, un grumo di rappresentazioni e immagini concrete, sulle quali la penna (la “vanga”, nella superba metafora che la identifica) interviene plasmando un piccolo universo parallelo, una dimensione trascendente dove la paura, grande motore di tutta questa poesia, può essere affrontata, liberata o forse addomesticata.
All’elusività dei simboli che la tradizione, anche italiana, gli offre (Pascoli, anzitutto, o il primo Ungaretti del Porto sepolto) Heaney ha preferito una densità metaforica che si risolve perlopiù nella descrizione invece che nell’evocazione. Quasi tutti i testi di Morte di un naturalista seguono questa scelta, o predisposizione: il poeta sa bene che la lingua è uno strumento da governare, e pure laddove evoca o suggerisce (si veda la bellissima Impalcatura, o la successiva Tempesta sull’isola), riesce a far emergere con una certa chiarezza la figura che manca e che pure si forma sotto i nostri occhi. Dietro la promessa coniugale, o il «grande nulla» che si affacciano dai versi di queste poesie, il lettore può intravedere quel punto di tensione, da dove la scrittura di Heaney trae la propria origine e la propria forza: la lingua come energia plasmante, come vortice metaforico che segue i contorni di ciò che normalmente resta sconosciuto, come nel gioco enigmistico delle linee da tracciare tra un punto e l’altro. La metafora, insomma, non come complessità, ma come scioglimento, come dimensione di un buio senza più paure.

Seamus Heaney, Morte di un naturalista, trad. di Marco Sonzogni, Mondadori 2014, e. 17,00.

San Francesco e gli uccelli

Quando Francesco predicò l’amore agli uccelli,
loro ascoltarono, svolazzarono, scattarono
alti nel blu come uno stormo di parole

liberate in allegria dalle sue sante labbra.
Poi una virata, ed eccoli di nuovo frullare sul suo capo,
piroettare sulle cappe dei fraticelli,

danzare in volo, per pura gioia giocare
e cantare, e come immagini prendere il volo.
Fu la poesia più bella di Francesco,


vera nel ragionare, lieve nel tono.

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