Oggi che possiamo leggere nella
sua interezza Morte di un naturalista,
suo lontano libro d’esordio, il cerchio che Heaney ha disegnato lungo la sua
intera vicenda di poeta sembra essersi definitivamente chiuso. Marco Sonzogni,
che di questa edizione firma la traduzione e la nota finale, cita molto
opportunamente alcuni richiami evidenti all’ultimo libro, Catena umana, ricordando spesso, però, che altri e non meno
evidenti richiami percorrono anche le altre raccolte di quest’autore,
componendo dei veri e propri microsistemi semantici, fatti di allusioni,
citazioni, riprese di immagini a distanza. Il movimento conclusivo di questo
percorso, tra i più suggestivi dell’ultimo Novecento, è dunque un perfetto
salto all’indietro, una vorticosa capriola lì dove tutto era cominciato, nei
vibratili anni Sessanta; ma non si tratta tanto di un ritorno all’origine, quanto
del perseguimento di una coerenza interna, del riconoscimento all’interno del
proprio cielo poetico di alcune stelle fisse, che sono tornate in più momenti a
illuminare la notte espressiva di Heaney.
È proprio dal buio, infatti, che
questa poesia prende le mosse. La metafora che meglio la identifica, quella
dello scavo (digging), annuncia
l’attraversamento dell’oscuro e la possibilità, attraverso l’elaborazione della
scrittura, di riconsegnare alla luce del giorno un paesaggio ctonio.
L’impressione è quella di un’ennesima azione orfica, forse un po’ anacronistica
nel cuore di una postmodernità che privilegia piuttosto le poetiche della
superficie, dell’effimero, del superfluo. In realtà Heaney è un poeta
perfettamente allineato al suo tempo e la sua personale impresa non intende
fronteggiare alcun mistero. La materia che viene via via scoperta è appunto
tale, un grumo di rappresentazioni e immagini concrete, sulle quali la penna
(la “vanga”, nella superba metafora che la identifica) interviene plasmando un
piccolo universo parallelo, una dimensione trascendente dove la paura, grande
motore di tutta questa poesia, può essere affrontata, liberata o forse
addomesticata.
All’elusività dei simboli che la
tradizione, anche italiana, gli offre (Pascoli, anzitutto, o il primo Ungaretti
del Porto sepolto) Heaney ha preferito
una densità metaforica che si risolve perlopiù nella descrizione invece che
nell’evocazione. Quasi tutti i testi di Morte
di un naturalista seguono questa scelta, o predisposizione: il poeta sa
bene che la lingua è uno strumento da governare, e pure laddove evoca o
suggerisce (si veda la bellissima Impalcatura,
o la successiva Tempesta sull’isola),
riesce a far emergere con una certa chiarezza la figura che manca e che pure si
forma sotto i nostri occhi. Dietro la promessa coniugale, o il «grande nulla»
che si affacciano dai versi di queste poesie, il lettore può intravedere quel
punto di tensione, da dove la scrittura di Heaney trae la propria origine e la
propria forza: la lingua come energia plasmante, come vortice metaforico che
segue i contorni di ciò che normalmente resta sconosciuto, come nel gioco
enigmistico delle linee da tracciare tra un punto e l’altro. La metafora,
insomma, non come complessità, ma come scioglimento, come dimensione di un buio
senza più paure.
Seamus Heaney, Morte di un
naturalista, trad. di Marco Sonzogni, Mondadori 2014, e. 17,00.
San Francesco e gli uccelli
Quando Francesco predicò l’amore
agli uccelli,
loro ascoltarono, svolazzarono,
scattarono
alti nel blu come uno stormo di
parole
liberate in allegria dalle sue
sante labbra.
Poi una virata, ed eccoli di
nuovo frullare sul suo capo,
piroettare sulle cappe dei
fraticelli,
danzare in volo, per pura gioia
giocare
e cantare, e come immagini
prendere il volo.
Fu la poesia più bella di
Francesco,
vera nel ragionare, lieve nel
tono.
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