martedì 22 settembre 2015

Per Nelo Risi



Nelo Risi se n’è andato. Silenziosamente, senza clamori, com’era nel suo stile rigorosissimo. Uno stile che condivideva con un altro grande lombardo, Luciano Erba. Pazienti, meticolosi artigiani della parola, entrambi, ma nel senso più nobile. Attenti alla musica, alle “risonanze” (titolo di un libro di Risi degli anni Ottanta) interne del verso, e a quelle ancora più interne dell’individuo. Eppure non riuscirei a condensare in una facile formula il loro percorso; se dovessi spiegare il nucleo della loro poesia, mi troverei piuttosto di fronte a un caleidoscopio di temi. Se Erba, per me, è stato soprattutto il poeta della tenerezza, dell’ironia, dell’amore, Risi ha avuto una presenza più sfumata. Alla “linea lombarda” come milieu poetico non ho mai creduto fino in fondo, e del resto Risi aveva eletto Roma a sua dimora, condivisa da sempre, nonostante gli alti e i bassi di una lunghissima vita coniugale, con la scrittrice Edith Bruck, una delle più acute testimoni degli orrori del nostro tempo. Ma qui, evidentemente, non è più questione di geografie letterarie. È tempo, piuttosto, di rileggere.
L’ho incontrato nei primi anni Novanta, e più di recente mi ero battuto perché avesse il Premio Mondello (e lo ebbe con Ruggine, nel 2004, nella bella edizione del trentennale del Premio). Ma i riconoscimenti non gli erano mancati, anche se sugli ultimi libri (e lo stesso, tristemente, accadeva anche per Erba) era sceso un silenzio sinistro. Mondadori, grazie alla tenacia di Antonio Riccardi, proponeva tutta la loro opera in due Oscar importanti, e i loro nomi erano sempre presenti nelle antologie storiche. I veri bilanci, però, sono ancora da farsi, e troppa polvere si è alzata nelle vicende della poesia italiana: il lavoro critico, su questi due autori, è ancora tutto da avviare e c’è molto da rivedere in ciò che è stato scritto. Troppe caselle fittizie, troppi steccati inutili sono stati inventati nel tentativo di mettere ordine; ma la poesia non ha bisogno di questo, ha soltanto bisogno di ascolto. E della disposizione ad ascoltare senza pregiudizi né collocazioni frettolose e semplicistiche. L’ulteriore scarto dei due ultimi libri è notevole, in Risi, a riprova non di una maniera ma di una inesaurita vitalità.
Potrei sceglierne tante, tra le poesie di Risi, ma questa è quanto mai attuale, tragicamente attuale. Si intitola Neri, ed è tratta da Mutazioni (1991):

Impediti di esprimersi al meglio
li vorremmo a sudare per noi
in lavori di accatto

E che delimitino i loro spazi
tanti spruzzi di orina
sul territorio

Fatti animale! viene di pensare
se vuoi essere uomo

Soffocati sul nascere
un nido coperto da un panno.

Vorrei chiudere non solo con questa poesia, ma con una dichiarazione di fiducia estrema nella poesia come lavoro e come dono. Ci aiuta a riflettere anche sulla memoria dei nostri poeti. Quando, nel 1994, Mondadori pubblicò una sua auto-antologia, Il mondo in una mano, Nelo volle premettere un suo scritto che termina con queste parole: «ogniqualvolta nella vita ho dovuto sostenere uno sforzo fisico al limite delle mie capacità o una prova non programmata – marcia estenuante, insonnia forzata, condizione coatta o di pericolo prolungato – sempre la memoria mi ha soccorso riportando dei versi, anche solo un frammento scolastico ripetuto all’infinito, che mi hanno permesso di superare paura e stanchezza come al bimbo che fischietta nel buio del bosco per darsi coraggio».
Addio a questo grande Pollicino che ha sempre saputo come ritornare dal fondo del bosco.

lunedì 21 settembre 2015

Paola Lucarini su Solstizio

Posto la bella motivazione (quasi una recensione) che Paola Lucarini ha scritto per la finale del Premio Camaiore. Grazie a Paola per la sua generosità!

Solstizio di Roberto Deidier è il libro delle interrogazioni: dell'interrogare se stessi e la vita per una risposta a tanti, troppi misteri.
L'esistenza si riconosce nel senso e nel sentimento del viaggio, del sogno, dove due gesti - sollevare e deporre valigie - orchestrano la partenza per una ignota meta, un transito da vivere insieme ad altri, orme di un cammino in carovana, destini incrociati nell'immensa clessidra del tempo che tutti accoglie, come granelli di sabbia, ognuno diverso eppure fraterno in questo ritrovarsi fianco a fianco con visibili e invisibili nel passato nel presente nel futuro.
Ecco una delle tante possibili letture della storia di un uomo, eternato nella foto di un attimo significativo folgorante, onnicomprensivo, prima della scomparsa.
Un profilo maturo sfuggente e al contempo dunque fermo nell'istante della lucida estrema testimonianza. Poesia di esistenza dunque da salvare e tramandare, nel campo dell'autentico vissuto che illumina la coscienza della persona. E la sua passione di esistere.
Nel fulmineo di un'istantanea si ripercorre l'emozione dei ricordi, il ricordo delle emozioni.
Sta forse qui il palpito della verità che insiste nel bussare al cuore, e allora va colto, come dono assoluto da tenere in sé anche per testimoniarlo, perché a quel punto io non sono più solo io, ma la folla dei tu e del noi. Pur nel mio profilo unico rappresento gli altri.
Poi lasciarsi andare verso l'alba, mentre l'Autore ripete che «l'alba non è che un sogno della notte».
Parole che ci sorprendono, illuminano la pagina del libro e dell'anima.
In questo trapasso, spesso evocato prima che sia definitivo, si accendono le luci del presente e le luci della memoria, con le inquietudini dei giorni bui sulle aspre e dolenti note del quotidiano, nonostante tutto, però, c'è anche un margine – sia pur breve – per la felicità, che d'un subito appare e si dilegua, nell'alternarsi di splendori e oscurità.
Di Roberto Deidier si apprezzano gli affondi rapidi e incisivi nell'essenziale che tutto confessa di un dolore lacerante per stremata tenerezza, a tale proposito vorrei citare un verso: «che silenzio in una parola- padre».
Al centro dell'opera campeggia la figura simbolo dell'acrobata (alter ego dell'Autore), l'uomo che si destreggia in bilico sulla corda con consumata perizia a sfidare il vuoto sotto lo sguardo del pubblico pronto ad ammirarlo per la vittoria o piangerlo nel mortale incidente, mentre il respiro dell'equilibrista e della folla pulsano con ritmi più accelerati. 
Questa è l'esistenza perché come afferma anche Kafka: «la vera via passa su una corda».
Incontriamo vita non solo affidata pericolosamente a sbarre e funi sopra l'abisso, ma sorretta da un filo di dialogo nella miriade d'incontri interpersonali che pullulano nelle città, nelle voci eccitate dei commerci e dei mercati. Questa apertura al respiro degli uomini si unisce, spesso per esempio, in palpitanti pagine di poesia, alla presenza del fiato marino, acceso nel vento che porta qui notizie di altrove, allora la lontananza assale aprendo nuovi spazi di luce e di lucente coscienza all'interiorità.
Concludo con una convinzione: solo i libri che hanno qualcosa da dire resistono nel tempo.
Questo di Roberto Deidier è proprio uno di quelli.

Paola Lucarini

lunedì 14 settembre 2015

AILANTO n. 21 - Su Donatella Bisutti







A soli due anni dalla precedente raccolta, Un amore con due braccia, Donatella Bisutti congeda un nuovo volume di poesie per la casa editrice Empirìa, dal titolo Dal buio della terra. È un titolo che ci riporta a una delle prospettive, e delle tematiche, privilegiate da sempre da quest’autrice nel suo lungo percorso. Vorrei citare almeno Penetrali, per restare in un’area semantica attigua, libro pubblicato nel lontano 1989 con una bella introduzione di Giovanni Tesio.
In effetti, scorrendo queste nuove poesie, il disegno che si delinea rimanda a una dimensione squisitamente ctonia, ma tutt’altro che infera. Termini come «fondo», «profondo», «buio», «oscuro» pervadono l’intera struttura, invitandoci ancora una volta, in questo faticoso avvio di secolo e di millennio insieme, a quell’atteggiamento di percettività discendente con cui la modernità aveva avviato la sua esplorazione dell’io e del mondo. Almeno a partire da Leopardi, e del resto l’immagine simbolica della ginestra, quale emblema di resistenza, torna ad affacciarsi in questi versi. Ma quella che si prefigurava come una discesa «dolce» diventa qui un’azione complessa, per più aspetti ipotecata dal pensiero della morte, dall’irrequietezza della finitudine. Lo spaziotempo infinito dei romantici si riduce infatti a una dimensione unica, dolorosamente unica: è quella dell’inesorabilità e dell’irreversibilità del tempo, che solo un’ipotesi mitica, del resto tenacemente esibita può arrivare a scalfire, creando un’illusione necessaria. L’illusione di un eterno ritorno, che comunque non sarà mai lo stesso: «Primavera ritorna / ma non / lo stesso fiore», ammonisce il poeta.
Dunque cosa resta? Come è possibile fronteggiare il pensiero stesso della caducità, della costrizione a discendere tra le ombre quando la stessa vita è attraversata da zone oscure? Il confine tra vita e morte, intesa come prefigurazione, si fa più labile quando quelle zone oscure divengono la materia stessa della poesia e ne stimolano il potere immaginifico. Per questo il tempo diviene il grande antagonista di questi nuovi versi, associato, come già suggeriva Brodskij, all’immagine dell’acqua che scorre. Queste «altre poesie» di Donatella Bisutti invitano pertanto alla ripresa di un discorso più volte tentato: la luce illumina la realtà e la ridisegna, ogni volta, ponendone in risalto gli aspetti inquietanti, aprendo ferite nell’ottusità del quotidiano. L’alba, scrive Bisutti, «getta il mondo / nella sua prima infanzia». Ed è proprio lì, soltanto lì, che il mito può provare a riscattare il dolore del presente, facendo di quella fiaba antichissima un luogo incontaminato dove il seme della poesia torna incessantemente a nutrirsi, e dove il Tempo (finalmente con la maiuscola) cessa di essere una banale misura per svelarsi nella sua più autentica sostanza. Così Pinocchio, simbolo di un’infanzia piegata e addomesticata, rifiuta di farsi carne umana e preferisce restare ciò che è: un mito moderno inciso in un ciocco di legno, che nessuna legge potrà mai piegare.

Donatella Bisutti, Dal buio della terra, Empirìa 2015, e. 15.00

La veste chiara

La luce della giornata
ancora esita, si impiglia nei vetri.
Una felicità così limpida, e verso sera
il limite dei campi sarà incerto
e, in fondo al ritorno, il buio.
Cosa avrò fatto di una seta così chiara,
dove mi sarò seduta così a lungo da sciuparla,
spiegazzata com’è ora, tutta piena di macchie.

venerdì 11 settembre 2015

SOLSTIZIO a Recanati - 19 settembre





Il 19 settembre a Recanati, in un "cortocircuito" con Piergiorgio Viti.
Ci sarà anche una performance di Cristina Lanotte con la sua lavagna luminosa.