martedì 28 giugno 2016

AILANTO n. 32 - Su Maurizio Cucchi



Il nuovo Oscar di Maurizio Cucchi, che aggiorna l’opera omnia in versi al recente Malaspina, appare ottimamente curato da Alberto Bertoni, che firma anche la lunga introduzione. In copertina troviamo una foto in bianco e nero di Milano, risalente al febbraio del 1950. Ci separano quasi settant’anni da quell’immagine, che più o meno viene a coincidere con l’intera vita del poeta. Siamo a Corso Buenos Aires: ci sono molti passanti nei loro cappotti, una grande edicola di giornali al centro, i tram che passano, gli alberi spogli lungo i marciapiedi. Lo spazio ontologico di questo poeta è anzitutto questo: una città-ragnatela, con le sue circonvallazioni e i suoi canali (per quel che resta), al cui centro si colloca una vicenda famigliare. Ha facile gioco Bertoni a inscrivere Cucchi in questa piccola geografia, che è per l’appunto una topografia esistenziale: una “scuola milanese” che parte da Parini e giunge fino a lui, a De Angelis, a Fiori, all’interno di una più vasta cornice generazionale, chiusa tra gli estremi anagrafici ancora di De Angelis, e più indietro, di Scalise (ma scenderei ancora un poco, almeno fino a Zeichen e a Pecora) e dominata dal rapporto contrastato tra scrittura e vita, tra Libro e Mondo («Libro/Mondo», scrive Bertoni, e quello slash non può che essere inteso come una funzione critica).
Milano, dunque. Una Milano spesso in bianco e nero, dominata dall’azione della memoria, che qui allestisce una biografia tutt’altro che mitica, in atteggiamento antileopardiano (forse qui sta uno dei nodi da sciogliere nei confronti della “scuola romana”, per esempio). Cucchi scolpisce il suo spazio attraverso la rievocazione del tempo, lo gestisce e lo illumina attraverso il tempo. Ed è qui, credo, in questo rapporto tra spazio e tempo, tra memoria e luce, che si viene ad aprire una dimensione davvero precipua. Se le poesie di Cucchi fossero un film, potendole cogliere proprio come una sequenza di immagini in movimento, allora l’autore non si limiterebbe a figurare come lo sceneggiatore o il regista, ma sarebbe anzitutto il direttore della fotografia. Colui che sa come modulare l’azione e gli effetti della luce, colui che costruisce attraverso una particolare disposizione della luce: e questa accende proprio quelle speciali  sovrapposizioni tra tempo e spazio, facendosi non solo un elemento fisico, ma anche mentale. In una precedente stesura di Jeanne d’Arc Cucchi l’aveva magistralmente definita come «luce del distacco». Luce quindi non dell’epifania né della riappropriazione, ma al contrario, della spoliazione, della separazione. Una luce molto antica, che spossessando riconquista all’essere nuovi territori narrativi, e guadagna all’esperienza la leggerezza del perdono.
Una città, per quanto grande, rischia di divenire uno spazio claustrofobico, una presenza, o anche soltanto uno scenario, ossessivi. Proprio giocando sugli effetti di luce Cucchi riesce invece a moltiplicare questo spazio urbano. Il poeta flâneur che osserva quanto lo circonda non si limita a descrivere, ma sfonda quella quinta della memoria dove passato e presente congiurano insieme per una dimensione più ampia. Il tempo moltiplica lo spazio attraverso uno sguardo che non è più soltanto empirico, ma affettivo. Ogni angolo di strada si tramuta in un infinito minimale, ogni incontro si amplifica, ogni apparizione moltiplica al suo interno ciò che la fisica potrebbe facilmente circoscrivere. In questo senso Cucchi può tranquillamente affermare, come uomo e artista, di non avere mancato la propria vita, consegnandola a quella complessità percettiva che ha nella scuola fenomenologica milanese un punto di riferimento certo.

Maurizio Cucchi, Poesie 1963-2015, a cura di A. Bertoni, Mondadori 2016, e. 13.00.

«Ho le caviglie troppo gonfie
ma non è questo dolce amico gentile
che parlandomi ti trasfiguri e piangi.
Cammino verso l’impossibile e se il dolore
talvolta mi confonde credimi
non ho mancato la mia vita.»

venerdì 10 giugno 2016

Sulla critica apocalittica

Non sono certo una novità, gli atteggiamenti apocalittici nelle tante, forse eccessive discussioni che avvengono intorno alla poesia contemporanea. Quando la mia generazione, quella dei nati negli anni Sessanta, cominciava timidamente a mostrarsi, si avvertiva la necessità di confrontarsi, ma spazi e occasioni erano allora piuttosto limitati. La scena era occupata a buon diritto dai padri e dai fratelli maggiori; il dibattito era confinato negli scritti che si andavano raccogliendo intorno a quelle figure, per lo più recensioni o ampi servizi di qualche rotocalco, che miravano a fare il punto e a restituire un po’ di visibilità. Neppure la nascita di una rivista “generalista” come «Poesia» servì ad aprire nuove strade di riflessione, ma a rispecchiare parzialmente lo stato dell’arte, come si dice. Sarebbe stata piuttosto la nuova ondata avanguardistica a farsene carico, mentre nuove esperienze, come quella di «Scarto minimo», restavano più in ombra (come, del resto, molta dell’attività svolta dai poeti e dai critici che si affacciavano sulla scena letteraria tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta).
Si trattava di un silenzio imbarazzante, destinato però a durare poco e a tramutarsi nel suo esatto contrario. L’avvento della rete avrebbe dotato la generazione successiva di uno strumento formidabile, quanto infido; nel giro di pochi anni nuovi piccoli editori e nuove riviste avrebbero occupato una dimensione fino ad allora inimmaginabile, con una moltiplicazione a dismisura di libri e nomi. Nonché di festival, premi, letture pubbliche. Per il critico diventava, di fatto, una sfida impossibile a sostenersi. I luoghi del dibattito erano divenuti, improvvisamente, troppi. Orientarsi in questo panorama così labirintico o polveroso, a seconda della prospettiva, significava perdersi dietro un’offerta sproporzionata, che incarnava però un bisogno e una reazione: la conquista, in ogni caso e in ogni modo, di uno spazio creativo, perfino ignorando la consistenza di un vero progetto; lo svuotamento, per ragioni anagrafiche prima che culturali, di una società letteraria che fino a quell’altezza aveva potuto esercitare un potere selettivo. Con nuovi strumenti di diffusione, e senza più i filtri del passato, la strada era finalmente libera. Ma per chi?
Furono gli anni del moltiplicarsi delle antologie, e delle discussioni che seguirono: proposte spesso lontane tra loro, al punto da contenere autori e testi diversissimi e orientamenti inconciliabili. I criteri di scelta non sempre adeguatamente motivati - neppure nelle operazioni che partivano da un intento puramente tematico - o comunque poco condivisibili, talvolta ridotti a un’improvvisata sociologia della letteratura o a prese di posizione ideologiche fuori tempo massimo, hanno reso quella stagione, forse non ancora conclusa, una grande occasione perduta. La vitalità di tutti questi fermenti ha finito per incarnare, piuttosto che un’autentica necessità estetica, un problema di identità. Nessun altro genere letterario, infatti, è andato incontro a una simile sorte: non il teatro, non la narrativa e tanto meno la saggistica. Nessun genere investe sull’io scrivente quanto la poesia (ma è chiaro che si tratta di un errore prospettico); nessun genere ha mai sollevato di conseguenza tanta agitazione e tanta energia polemica. Ne è venuta una confusione di ruoli, se anche il critico ha potuto conquistarsi un’identità trasformandosi in antologista; se la quantità delle offerte ha smarrito il lettore, disabituato ormai al giudizio sereno e senza sufficienti orientamenti. Ne è venuta, paradossalmente, una difficoltà comunicativa, un atteggiamento di sospetto da parte di alcuni media, che si è tramutato in una presa di distanza, in una rimozione. Basta confrontare le bibliografie sui poeti di venti o trent’anni fa con quelle attuali: la maggior parte dei contributi è ospitata, non a caso, sul web.
Insomma, è davvero felice questa esplosione di poesia o va invece letta in un’ottica non più letteraria, ma di emergenza sociale? Il dibattito attuale su quali fondamenti poggia, su quali presupposti? I legami con la tradizione sembrano ormai sciolti, all’insegna di una libertà che confonde i piani della storia e dell’espressione, con risoluzioni spesso anacronistiche: come se,  di fatto, non sia mai esistita una storia della poesia. Eppure tutto questo ha poco a che fare con una visione apocalittica.  Certo, la quantità può diventare un problema e richiedere altre chiavi di lettura, ma la sfida resta aperta, deve restare aperta. Ridurre un panorama, per quanto frammentario ma comunque vivace, al grado zero della poesia significa ammettere una sorta di snobistica impotenza, o incapacità. In questo senso l’apocalisse è davvero il più feroce degli alibi: è l’atto di dismissione di ogni funzione critica. C’è in questa visione qualcosa di necrofilo, o di vampiristico: il canto in morte della poesia tiene vivi i cantori della morte, i quali non hanno nient’altro da dire.

Un amico artista che vive a Parigi, Alberto Sorbelli, mi ha ricordato qualcosa di importante, a livello europeo: i soldi sono finiti. È un dato confortante, per la poesia, per questo genere che è sempre rimasto fuori da ogni mercato. Se i soldi sono finiti, la poesia ritornerà. Con buona pace degli apocalittici. E a ben vedere, non se ne è mai andata.

martedì 7 giugno 2016

Per Franco Fortini

Pubblico una breve testimonianza su Fortini, che mi fu richiesta anni fa per la versione online de «L'ospite ingrato». La recente edizione delle poesie negli Oscar Mondadori, a cura di Luca Lenzini, in parte risolve certe mie riserve sulla cancellazione che questo poeta ha subito per lunghi anni dopo la sua morte. L'intellettuale è stato messo in primo piano rispetto all'artista, mentre non è possibile scindere le due figure; l'una non si motiva senza l'altra. L'Oscar restituisce l'interezza della  sua fisionomia, e c'è da augurarsi che Fortini torni a essere un maestro anche per la poesia che verrà: ciò che significa ripensare una possibile linea poetica, che piuttosto che guardare alla Francia, guarda alla Germania e al mondo anglofono. E a una tradizione nostra che non può essere rimossa o emarginata.



Dei poeti che si sentono vicini si fa spesso fatica a scrivere, perché le ragioni di quella vicinanza non vogliono, o non possono, essere chiarite del tutto. Elezioni e affinità, in poesia, seguono le regole ineffabili della stessa creatività. Ricordo infatti che a Fortini dedicai poche righe per una scheda su Composita solvantur, il suo libro-testamento, poi tornai nel silenzio che aveva preceduto quell’occasione. C’era in me come un imbarazzo, una sorta di pudore, in cui si traduceva un’adesione spontanea ai suoi versi. Non mi accadeva altrettanto con i suoi saggi, invece, che erano – e rimangono – una continua proposta di discussione e di messa a fuoco. Il maestro della polemica era anche un maestro della contraddizione e non sempre è  stato agevole seguirlo: Verifica dei poteri è un libro che inquieta per passione, profondità e acutezza, ma anche per quanto vi resta di irrisolto, di non “irreggimentabile”.
Ma c’era, per me, soprattutto la poesia. Ed è un segno della grande povertà di pensiero del nostro presente, l’assenza di Fortini poeta: un’assenza che ricade sui lettori più giovani, che entrando nelle nostre librerie discount non possono imbattersi nelle sue raccolte; un’assenza, infine, di cui l’aspetto editoriale o generazionale è solo l’estrema conseguenza rispetto a un movimento più ampio, e più triste: una damnatio memoriae che va a colpire una precisa opzione di scrittura, quella scrittura in grado di confrontarsi in maniera serrata con le criticità del presente, senza nulla risparmiare al lettore. Temo invece che si sia scelto di cristallizzare l’immagine di Fortini come quella di un “intellettuale”; ciò che sicuramente gli appartiene, ma che con altrettanta sicurezza non esaurisce la ricchezza umana e poetica del personaggio, e che rischia di rinchiudere la sua stessa poesia in un recinto ideologico troppo stretto. Accanto a quelli di Pasolini, le cui dimensioni espressive sono parimenti tutelate, e accanto al Sereni degli Strumenti umani, sento il bisogno dei versi di Poesia e errore e di Questo muro, senza i quali non sarebbe possibile comprendere la nostra modernità più tarda.
In quel coacervo di scritture che ancora oggi chiamiamo ermetiche, non senza qualche giustificata esitazione, Fortini subentra con una funzione dirompente, ampliando il quadro dei riferimenti e tornando a guardare alla lezione dei poeti di lingua tedesca. Non più una visione univoca verso ovest, versi i francesi, con i loro stanchi e intellettualistici retaggi orfico-simbolisti, ma  verso nord. È un tratto coerente, se nell’ultimo libro si ritrova la figura di Saba, che aveva saputo a sua volta volgersi a nord, verso Heine; ma in Fortini, in filigrana, si avverte che la poesia tedesca è solo un primo tramite verso una geografia ideale più vasta, e che nella chiarezza dei suoi versi agisce, come un sostrato fertilissimo, anche la lezione dei poeti inglesi, con il loro impulso a una narratività franca. Una franchezza che si traduce nello stile, una delle più illuminanti ossessioni di Fortini: il suo, piuttosto piano, qua e là interrotto da caute e discrete inversioni o deviazioni sintattiche, che non sono mai un tratto compiacente, ma che traducono invece la solennità del suo dolore di fronte alla Storia. Solennità, certo: ovvero capacità di distacco e astrazione, proiezione di un sentimento critico della realtà oltre la realtà stessa. Mi chiedo, oggi, come possiamo fare a meno di versi come «Noi ci troviamo in questo momento in corsa / in una lunghissima curva della pista: che è la pianura / di nebbia fetida, chioschi, conigli sbranati, fari. / Precipita la notte e incanta la regione». La regione o la ragione umana stessa, incantata da una notte mediatica che ancora non cede all’alba? Ecco, la funzione Fortini è in questa capacità, tutta moderna, di inventività allegorica, di estensione delle singole immagini a grandi affreschi che ci consentono, fuori del tempo, di comprendere il tempo. Per questo «essere vivi ci è caro». Ed è per questo che la sua poesia non riesce ad allontanarsi dal mio orizzonte più prossimo, come un monito e come un antidoto ancora efficace di fronte alle tentazioni solipsistiche o ai ripiegamenti elegiaci, come – e soprattutto – alle analogie da geroglifico che affliggono tanta facile scrittura odierna e che possono essere celebrate proprio e solo mettendo da parte, “una volta per sempre”, Fortini.