giovedì 22 ottobre 2015

SpiRituale/Digitale. Fotocronaca di un vernissage con poeti

Roma, Via Baccina, con lo sfondo dei Fori. Qui c'è la sede di Empirìa, dove sta per inaugurarsi la mostra di Rocco Micale, «SpiRituale/Digitale 1.1». Per questo evento 11 poeti contemporanei hanno inviato un loro testo, scritto o scelto per l'occasione.


È il tardo pomeriggio del 16 ottobre. Rocco Micale è pronto ad accogliere gli ospiti davanti alla sede della mostra…


ed ecco il pubblico che inizia ad affluire…


Nella sala piena Rocco viene presentato da me…


e cominciamo a dialogare sulle sue opere, sui loro significati e sulle tecniche:


La gente in sala ascolta attenta e si accinge a sua volta a fare domande.


Si riconosce Luigia Sorrentino che legge la sua poesia:

lo ha seguito 
nel fitto degli alberi 
già così scura la macchia

la piccola onda 
ha smarrito la strada 
nelle crepe del tempo 
la lingua del muschio 
fa tacere ogni luce

Uno degli arcani presentati è «La Morte»:


E adesso è Alberto Toni a leggere la sua poesia, dal suo libro Nomos:


Il tratto dei misteri ci dice che domani
compiremo il viaggio di conoscenza-
Dio lo sa nel silenzio che attraversiamo,
in folle corsa e minime pause stagionali.
Un raggio finale e doloroso.
E tutti gli oggetti allineati sul tavolo
per il ritorno.

Qui ci sono Giulia Napoleone e Marco Caporali. Anche lui ha portato una sua poesia, intitolata Davanti al fuoco:


Lascia che ciascuno intraveda la sua immagine
in quel rogo di scheletri ed alberi
che la preistoria invade.
Un cuneo che ci innerva nella creta
un calcolo di beni
più vasti del presente che con ansia
fuori di sé si volge
impongono una stabile dimora.
Le puoi rivoltare sul foglio
le tue riserve spente
che si susseguono in remote terre
pacificate, dai venti erose
mentre le vette altrove s’inabissano
irte, incompiute minacce. E’ un mosaico marino
che in cristalli si sfalda
e ci predice, nomadi all’origine rivolti.

Fuoco su fuoco. Questo quadro è dedicato al mito di Efesto:


Baldo Meo ci legge la sua poesia, dal titolo La cerimonia esemplare:


Acqua di vite, mercurio, vetriolo
filtro della lunga pazienza,
veglia dell'esperienza
per una inconciliata soluzione.

Per il pensiero che è consolazione
e il desiderio che è fastidio
nell'affetto vago ma accorto,
esordire e' vivificare.

Ma facile non è voce che dura
per fare e per trattare
per il vento eternale
e il ritmo rituale.

E come parlare all'estremità 
degli accidenti -assorto-
la parola fuggitiva,
la sostanza virtuale?

Ci ha raggiunto Elio Pecora. A lui dedichiamo La Temperanza:


Ed eccolo mentre legge Sogno 2:


L’aveva fatto passare,
anche stavolta
non disse niente di sé.
Discesero insieme una  strada,
pronunciò un nome,
un nome che non conosceva.
Rimasero a lungo in silenzio
prima di allontanarsi,
senza un cenno, un saluto,
ciascuno verso un suo luogo.

Questa che segue, invece, è la mia poesia. S'intitola L'arte della previsione:

Verso sera, i gomiti sulla ringhiera,
Si va incontro a un’improvvisa limpidezza.
La polvere del giorno decanta
Minuscoli grani di pensiero.
Sembra più alto, il cielo. L’ippocastano
Piega i rami sulla corona di ortensie
E le sue voci si fanno profonde
Come un fuoco di cori segreti.
I gomiti sulla ringhiera, ancora calda,
E il cielo sempre più alto.

Hanno partecipato inoltre, di presenza o con i loro versi, Daniela Attanasio, Silvia Bre, Anna Cascella Luciani, Biancamaria Frabotta, Gabriella Sica. E naturalmente la splendida padrona di casa, Marisa Di Iorio. Rocco Micale ha prodotto un piccolo catalogo della mostra, contenente gli interventi critici di Gianpaolo Trotta, Antonina Greco, Raimondo Burgio. La mostra è aperta fino al 23 ottobre.

martedì 13 ottobre 2015

AILANTO n. 22 - Su Giovanni Bracco




Di Giovanni Bracco, di cui La Vita Felice ha appena pubblicato un primo libro di versi, Le grandi mani calme, abbiamo poche, sintetiche notizie. Nato nel ’61 in un paese del Sud, nel Vallo di Diano, è giornalista presso l’agenzia «Il Sole-24 Ore Radiocor» e ha pubblicato poesie su «Nuovi Argomenti» e «Poeti e poesia». Dei suoi gusti, delle sue predilezioni letterarie, non ci viene detto nulla, anche se la limpidezza della sua scrittura fa pensare a un Novecento in positivo, e a una tradizione lirica, d’amore, che da Petrarca giunge nel cuore della modernità. Proprio da Petrarca, infatti, è tratto l’unico segnale che Bracco concede al suo lettore: tre soli versi in epigrafe, dal Canzoniere, in cui l’amante viene trovato da Amore del tutto «disarmato». Con questo viatico proviamo a entrare nel libro di questo poeta, di cui ci è dato solo sapere che ama la musica (è diplomato in pianoforte e possiede un vecchio Steinway), ha una laurea in lettere e ama coltivare la terra.
Entriamo dunque disarmati, come il soggetto che narra e si descrive “in situazione”, all’interno di una dinamica sentimentale che risponde a una precisa e ben conosciuta fenomenologia amorosa: quella di chi deve ammettere il possesso da parte dell’altro, sia in presenza che in assenza («Tremo all’idea della tua presenza. / Vertigine l’assenza», recita un distico dalla semplice verità), ovvero quella forma di assoggettamento che tracima nell’ossessione. Petrarca è davvero il modello dei modelli, in questa prospettiva. E in quell’ossessione, in quel «pensiero dominante», la donna amata agisce una sorta di fantasmagoria, allestisce e governa la «stanza segreta» dell’eros, smuove il «mistero» che parte dalla sua bocca e investe l’amante, irretendolo per sempre nella voluta del desiderio. «Bocca», «bacio», «odore»: nuovi sensi intervengono sulla scena della lirica d’amore, accanto a quelli tradizionali della vista e dell’udito, che in realtà rappresentano la base percettiva della terza e ultima sequenza del libro, «Su un’isola si aspetta». Al centro dell’opera sta una breve sequenza, un poemetto a sé che sembra derivare da una collana di pseudo-haiku, dedicati tutti al Mont Saint Michel. È una cesura perfetta, che fa da soluzione di continuità tra le due sezioni principali e più ampie: la prima, dominata dalla figura dell’amata, e l’ultima, dove un paesaggio più vasto (ci sono isole, certo, ma anche città e quartieri che sembrerebbero perfettamente assimilabili a isole anch’essi, o comunque visti e vissuti come tali) ci introduce all’assenza e all’attesa, in perfetta simmetria con la prima. Qui la marea mima il movimento amoroso, isola, mare e sabbia ne divengono i simboli. Bracco ha sapientemente costruito un piccolo canzoniere privato (ma ogni canzoniere, in quanto riflesso di un’esistenza travasata in versi, lo è), riprendendo la stessa struttura che era del suo modello esplicito.
Così, se nelle prime poesie azione e pensiero si scambiamo incessantemente le parti lasciandosi soggiogare dalla visione della donna, nelle ultime il soggetto si trova a fare i conti con se stesso.  È qui, probabilmente, che «viene incrinato il mistero» adombrato dalla presenza femminile, come scrive Elio Pecora in prefazione. A legare le due sezioni, inoltre, c’è l’andamento da diario mensile, ovvero quel senso di vulnerabilità del tempo a cui entrambi, amante e amata, sono inevitabilmente costretti, con le loro storie – anche corporali – e i loro luoghi. La scommessa è sempre quella di «arrivare ai confini della sera / col bagaglio ben fatto / e una carezza non occasionale», «impigliarsi» o «posarsi» come la piuma sintetica scesa sul balcone.

Giovanni Bracco, Le grandi mani calme, prefazione di Elio Pecora, La Vita Felice, 2015, e. 12.00.

Di notte nella stanza luci rosse
di radiosveglia tracciano
ai pensieri la pista di atterraggio.
Ma io li ricaccio in volo
nella profondità folle dei sogni.

Dovrei farlo stanotte che mi manchi
dentro la pancia, nel mio nero cuore.
Ma è un grumo nero il cuore
e tu farfalla vento verde neve.

venerdì 9 ottobre 2015

Poesia, ovvero l'arte di voltarsi indietro

Posto la relazione che ho tenuto ieri al convegno Poesia del pensiero, organizzato a Roma, presso il Maxxi, da Luca Archibugi e Giorgio Patrizi.


C’è più che un residuo di orfismo, nella poesia dei moderni. Non mi riferisco alla sua parte più evidente, quella che dai romantici, attraverso i simbolisti, tracima nel pieno del Novecento, tra Rilke e Ungaretti: quell’orfismo verticale, quel senso della discesa che sembra sfumare certi connotati psicologici per tentare di riappropriarsi, invece, dei significati profondi. La poesia al posto dell’Essere oppure, come sarebbe avvenuto di lì a breve, la fusione tra i due, sebbene in altro contesto e con altre intenzioni. Accanto a questa dominante c’è stato, meno pervasivo forse ma con uguale densità, un orfismo orizzontale. Ve ne sono già le tracce in Leopardi, accanto al pensiero-immagine del naufragio, e lo stesso può riscontrarsi in Rilke. È l’orfismo che circoscrive una precisa fenomenologia dello sguardo: quella di chi sceglie di guardare nonostante.
Accade anche a Montale. Forse un mattino andando in un’aria di vetro racconta l’esperienza di uno sguardo che è costretto a rivolgersi per potersi finalmente imbattere nel nulla, in un mondo percepito solo come «rappresentazione», come lo aveva inteso Schopenhauer. E come i poeti, secondo Marina Cvetaeva, si possono suddividere in quelli con storia, che non si voltano mai indietro, e quelli senza storia, i lirici che si voltano, così gli uomini vengono definitivamente spartiti tra quelli che si pongono il problema di voltarsi e quelli per cui la vita è solo tempo, un vettore che sfreccia in avanti. Cvetaeva non ha pensato a Montale, e neppure a Eliot. Questi hollow men che si aggirano nel deserto della contemporaneità, protesi al loro inconoscibile futuro e quindi alla morte, sono forse l’emblema più alto di una reificazione che ottunde le coscienze. Chi invece si è voltato, si è imbattuto nel «terrore», ma ha conquistato un «segreto» non condivisibile. La verità dei poeti è irresponsabile, cieca.
Lo sguardo orfico, per poter agire, si lega dunque a un impedimento. Può trattarsi di un accidente naturale, come lo schermo di una siepe; può ancora esprimersi sotto la specie di un divieto, così da provenire direttamente dalle regioni del mito; e ancora al mito, infine, l’impedimento deve quella che è probabilmente la caratteristica più suggestiva, quella della velocità. Non è una velocità fine a se stessa, ma che induce, provoca altra velocità. Nel Manuale di zoologia fantastica di Borges ne ritroviamo un esempio evidente, che è, nello stesso tempo, un formidabile vettore ermeneutico. Borges riporta quella che gli viene presentata come una leggenda dei boscaioli del Wisconsin. In quelle lande deserte, tra i boschi secolari e i tronchi smisurati, la solitudine elabora la paura, e la paura a sua volta crea una sua precisa forma simbolica. È quella di una strana creatura, denominata «Hide-behind», che sta nascosta dietro di noi, alle nostre spalle. Che ognuno abbia il proprio Hide-behind è solo un’efficacissima allegoria. Si può mostrare, questa creatura del nostro inconscio? Certamente no. Tutte le volte che proviamo a guardarla, compiendo l’atto di voltarci, lo Hide-behind si è già spostato, così che risulta impossibile focalizzarlo. Lo spazio della visione si fa estremamente mobile, al punto da annullarsi: lo sguardo resta impotente, e isolato. Non si stabilisce alcuna reciprocità.
Questo accade, aggiunge Borges, perché lo Hide-behind è sempre più veloce di noi. Qui l’allegoria sembra complicarsi e aggiungere, all’evidenza della base psicologica, un ulteriore tasso di metaforicità. È una spiegazione, quella della velocità, che però ci costringe a fare i conti, questa volta, con la nostra diversa velocità. Era accaduto anche all’Orfeo di Rilke. «Agile», lo sguardo sempre rivolto verso la soglia estrema che riconduce al mondo dei vivi, un solo arduo obiettivo da raggiungere, investendo in una fiducia assoluta. I due sensi maggiori della percettività moderna, vista e udito, non vengono in soccorso: il primo è soggetto a un divieto, il secondo si scontra con il silenzio assoluto degli inferi. Il primo «si aggirava come un cane», mentre tutto il corpo del poeta «divorava la strada a grandi morsi»: rappresentazione di una ferinità decisa, per cui la conoscenza, anche quella della morte, passa attraverso la fame e la sete, come suggerisce Tommaso d’Aquino. Il secondo senso, invece, è rivolto «indietro come resta un’ombra». La luce della conoscenza, e della verità, filtra attraverso il solo senso libero di voltarsi, e un’ombra viva si proietta sul sentiero delle ombre morte. «Essi verranno», prova a dire Orfeo, quasi tentando un’ultima formula magica, un rito privato tra desiderio e dubbio: ma la sua voce potente, laggiù, è destinata a spegnersi, come l’urlo di un incubo. «E tuttavia venivano, ma due / dal lentissimo passo».
Euridice, nel testo di Rilke, è scortata da Hermes, il dio della velocità per antonomasia. Anche lui, però, deve scontare un impedimento e contenere la forza degli attributi divini: l’ombra che sta accompagnando è ancora avvolta nel sudario, e questo rallenta il cammino, ma si tratta soltanto di un’immagine necessaria, ovvia. Quel sudario è piuttosto il simbolo, l’habitus di una condizione nuova: quella che Rilke chiama «grossen Tode», la «grande morte». La morte come esperienza irreversibile, e per contrasto, rigeneratrice. La morte come solitudine altissima, che riporta Euridice a se stessa, e non ne fa più semplice oggetto di canto. La morte è «grossen» perché la riscatta da uno stato di passività e la rende, finalmente, soggetto. Un soggetto in grado di rifiutarsi, lei che sembra non capire nulla di quanto le accade intorno, e che «mite e paziente» risale e infine ridiscende per la terza volta (caso unico nel repertorio del mito) il sentiero che passa tra i vivi e i morti. Lei che ormai appartiene solo a se stessa.
Ciò che la figura di Euridice suggerisce, nella lettura che ne dà Rilke, non è tanto l’irrimediabilità della morte e il distacco che ne consegue, quanto il raggiungimento, la conquista accidentale di uno status di libertà e di affrancamento. Nonché di potere, anche se si tratta di una facoltà paradossale, per chi la giudica dalla parte dei vivi. Rilke disegna un quadro suddiviso in due assi semantici, fa della morte una vera e propria polarità: il mondo dei vivi è ovvio, quello dei morti rovescia questa ovvietà e ripiega su se stesso, marcando la propria superiorità e indipendenza. Qui, nel fondo dell’Ade, ciò che ai vivi è dato una sola volta è dato invece per sempre: sono le parole che Claudiano dona a Plutone per consolare Proserpina del forzato distacco dalla madre, e che Euridice sembra accettare in pieno. Su questa nuova forza può finalmente imbastire una risposta, ovvero prendere parola.
La prima parola che pronuncia la “nuova” Euridice, in Rilke, serve a ribadire la sua totale estraneità al mito. Quando Hermes, con la voce mesta, le comunica che Orfeo si è voltato, lei non può che pronunciare quell’estraneità nella forma di una domanda assoluta: «Chi?». La sua assenza, per questa via, non è soltanto quella di una soglia varcata per sempre, ma un’indifferenza indotta da una consapevolezza inaudita. Se Orfeo ha ancora potuto riconoscerla, lei invece non è più in grado di farlo. «Mite e paziente» segue il percorso verso la vita, ma questo non la riguarda più. Se Orfeo fosse riuscito nell’impresa, avrebbe trascinato con sé un involucro vuoto, un fantasma del passato: qualcuno profondamente estraneo, perfino ostile. Qualcuno destinato a non appartenergli. È a questo punto che la poesia deve fare un passo indietro e riportarci al momento in cui il poeta incontra la donna e la riconosce fra tante altre ombre. O è piuttosto Euridice a riconoscere Orfeo e a scagliargli addosso le parole estreme del distacco?
È l’espediente a cui ricorre Marina Cvetaeva. Il discorso appena avviato da Rilke con l’interrogativo rivolto a Hermes prosegue, e ancora per noi si conclude, con il monologo serrato con cui Euridice investe Orfeo: «il nuovo incontro è spada». La polarità di Rilke giunge qui al pieno compimento: «in questa casa / illusoria tu, vivo, sei fantasma, e vera / io, morta». Orfeo «non deve scendere a Euridice». La verità è nella  mano di lei, che provocatoriamente, proprio mentre stanno per concludere il mito, tocca la spalla di lui e lo costringe istintivamente a voltarsi. Lei sa che quel gesto improvviso e imprevisto l’avrebbe riconsegnata per sempre alla sua nuova natura, alla ritrovata libertà in se stessa. Quello sguardo non può più essere reciproco, com’era stato, anche se per un solo istante, quello della passante di Baudelaire. La tensione è tale da renderlo un campo magnetico, dove i due poli uguali si respingono necessariamente. Ma perché sono divenuti uguali?  

Euridice viva è materia del canto, emittente e destinataria di una gioia che si fa potenza pervasiva. Euridice morta è ancora materia di poesia, ma nell’assenza e nella negazione, «così che un mondo fu lamento», traduce Pintor da Rilke. Il mito regredisce allo stato di metafora primaria e diviene, ancora una volta, allegoria della condizione della poesia per i moderni, così che Euridice stessa può essere assimilata a questa poesia che disperatamente nasce dopo la morte della poesia. Euridice è la poesia, è una perfetta ipostasi di questa poesia che canta la propria assenza. Per questo, come scriveva Marina Cvetaeva, non senza una certa aggressività, «I fratelli non devono turbare le sorelle». Tra il poeta e la donna amata e inseguita fino all’Ade la poesia scende come un tabù, la morte - come esperienza e come limite - sancisce il riconoscimento di un’uguaglianza. Per questo il mito era destinato a non chiudersi, tra l’impedimento e l’incompiutezza. Nessuno meglio di un moderno avrebbe potuto comprenderlo. La poesia, per lui, è ormai irrimediabilmente oltre. Raggiungerla è impresa impossibile, lo sguardo non è ricambiato, gli occhi della poesia respingono. Si può ricordare, desiderare, pensare la poesia, ma non è più dato di farla. Si può solo pensare Euridice. E come la poesia, questa figura porta con sé una verità «irresponsabile e senza conseguenze»; quella verità che «non bisogna neanche cercare di inseguire, giacché anche per i poeti essa è senza ritorno».

domenica 4 ottobre 2015

Per Luciano Erba



Qualche giorno fa, pensando alla scomparsa di Nelo Risi, mi sono trovato più volte a ricordare Luciano Erba. Viene quasi naturale, per molte ragioni. Intanto perché, nelle storie e nelle antologie della poesia italiana del secolo scorso, i loro nomi sono spesso apparentati nella «linea lombarda» o nel più generico ambito del post-ermetismo; insomma, uno chiama l’altro, e di entrambi è evidenziata una certa componente razionale, o raziocinante. Ma ricordi e persone si allineano per noi, in noi, in una strana catena della memoria, che coinvolge situazioni e incontri, episodi e imprevisti. L’ho dichiarato più volte, Erba è uno dei miei poeti preferiti: quel suo fondere intelligenza e tenerezza, sempre così sapiente eppure leggero, mi ha sempre dato un grande piacere di lettura.
Mi sono imbattuto nei suoi versi tramite le antologie, quand’ero ancora studente. Erano gli anni delle scoperte, certo, ma anche delle esplorazioni di libri: quando mi trovavo fuori Roma giravo per vecchie librerie o reminders sperando sempre di trovare qualche titolo interessante di Guanda, Mondadori o Garzanti. Ero all’Aquila, dove viveva mio padre e dove spesso andavo a studiare, lontano dai rumori di Roma. Nella storica libreria Colacchi trovai una prima edizione di Dopo Campoformio di Roversi; accanto, ricordo, c’era una copia de L’ippopotamo, appena apparso da Einaudi. Sarà stato il clima estivo, quel misto di luce e ombra che in certi pomeriggi di luglio ti fa improvvisamente realizzare di trovarti immerso in una dimensione tipicamente italiana, tra viuzze, tetti, palazzi e case basse, in un susseguirsi continuo di calore e frescura, quando la frescura porta con sé l’odore di qualcosa di molto antico, che lì per lì non sai riconoscere, ma che dopo pochi passi ti richiama, all’improvviso, qualche rapido scorcio della tua infanzia; saranno state le vecchie mensole della libreria, il loro aspetto da vecchio emporio; sarà stato per questo, ma leggere quelle poesie d’amore, scritte in assenza, come un trovatore, fu come riascoltare una voce interna. Qualche mese dopo, a Roma, nella libreria Rizzoli della galleria Colonna, che ora non c’è più, trovai fortunosamente Il nastro di Moebius, il libro con cui aveva vinto il premio Viareggio molti anni prima, e fu naturalmente una conferma. Poi, in una libreria antiquaria, fu il turno de Il prato più verde.
Lo avrei conosciuto di persona, e avrei parlato con lui dei poeti amati, dei miei studi, ma il primo vero incontro fu proprio con le poesie dell’Ippopotamo, che resta per me uno dei libri più felici dell’ultimo scorcio di Novecento: «Quell’azzurro di luglio senza te», «Se mai ti ricorderò come una madonna senese»… Un’Italia riconoscibile eppure sotterranea, celata in  qualche zona della memoria, riaffiorava in quell’estate dell’89. Ci fu anche l’occasione di un viaggio. Alla fine degli anni Novanta collaboravo con l’università di Roma Tre e Giulia Lanciani, che aveva la cattedra di portoghese, ebbe la possibilità di organizzare uno scambio tra poeti italiani e lusitani. Mi chiese di farle alcuni nomi, e alcuni mesi dopo ci ritrovammo a Lisbona con Silvio Ramat, Elio Pecora, Maria Luisa Spaziani e Luciano Erba. La sera del giorno successivo al nostro arrivo l’Istituto Italiano di Cultura ci avrebbe ospitato per una lunga sessione di lettura e di confronto, ma Luciano, invece di riposarsi, ci coinvolse in una gita a Sintra. Era il più curioso del gruppo, il più affamato di immagini: ricordo il suo passo velocissimo lungo le mura del castello, la mia sorpresa di scoprirlo ancora così agile e Silvio che mi confermava la sua abilità sui sentieri di montagna. Ricordo le ali che faceva il suo impermeabile, mentre avanzava osservando minuziosamente il paesaggio, fin dentro i dettagli che a me sfuggivano per la novità e l’eccesso.
Poi ci furono gli incontri in Sicilia. Il treno dei poeti, la prima grande manifestazione di poesia voluta da Antonio Presti. Andai a Catania, da lì salimmo sulla Circumetnea fino a Bronte. C’era Enzo Iachetti che ci intervistava, sembrava tutto surreale, in un marzo freddissimo. Alla stazione di Bronte io e sua moglie fummo fatti scendere, per fare spazio ad altri poeti e ad altri ascoltatori. Lì, nel piccolo bar, ci consolammo, nell’attesa che la littorina ripassasse, con una torta al pistacchio.
Quindi ci fu il premio Mondello, fortemente voluto dai poeti della giuria, per l’Oscar che raccoglieva le sue poesie. Fu una vera festa, per Luciano. A Palermo, nella hall dell’Hotel delle Palme, ci ritrovammo a parlare di autori e letture; era molto incuriosito dai miei corsi sugli sviluppi della poesia moderna, chiedeva informazioni sui tracciati che andavo disegnando di anno in anno. Nel 2003, infine, l’Unesco mi chiese di organizzare una manifestazione di poesia a Palermo, e Luciano venne di nuovo a parlarci e a leggere i suoi versi. Non lo avrei più rivisto. Negli ultimi anni gli impegni ci avevano tenuti distanti: più volte, se mai avessi deciso di salire a Milano, mi aveva offerto ospitalità, ma non accadde mai. Quelle conversazioni mancate mi lasciano un po’ di rammarico, e qualche volta mi diverto a inventarle, mettendo insieme citazioni dai suoi libri. È un modo, un po’ infantile, per far finta che Luciano sia ancora qui. Forse a lui sarebbe piaciuto.