Di Giovanni Bracco, di cui La
Vita Felice ha appena pubblicato un primo libro di versi, Le grandi mani calme, abbiamo poche, sintetiche notizie. Nato nel
’61 in un paese del Sud, nel Vallo di Diano, è giornalista presso l’agenzia «Il
Sole-24 Ore Radiocor» e ha pubblicato poesie su «Nuovi Argomenti» e «Poeti e
poesia». Dei suoi gusti, delle sue predilezioni letterarie, non ci viene detto
nulla, anche se la limpidezza della sua scrittura fa pensare a un Novecento in
positivo, e a una tradizione lirica, d’amore, che da Petrarca giunge nel cuore
della modernità. Proprio da Petrarca, infatti, è tratto l’unico segnale che
Bracco concede al suo lettore: tre soli versi in epigrafe, dal Canzoniere, in cui l’amante viene
trovato da Amore del tutto «disarmato». Con questo viatico proviamo a entrare
nel libro di questo poeta, di cui ci è dato solo sapere che ama la musica (è
diplomato in pianoforte e possiede un vecchio Steinway), ha una laurea in
lettere e ama coltivare la terra.
Entriamo dunque disarmati, come
il soggetto che narra e si descrive “in situazione”, all’interno di una
dinamica sentimentale che risponde a una precisa e ben conosciuta fenomenologia
amorosa: quella di chi deve ammettere il possesso da parte dell’altro, sia in
presenza che in assenza («Tremo all’idea della tua presenza. / Vertigine
l’assenza», recita un distico dalla semplice verità), ovvero quella forma di
assoggettamento che tracima nell’ossessione. Petrarca è davvero il modello dei
modelli, in questa prospettiva. E in quell’ossessione, in quel «pensiero
dominante», la donna amata agisce una sorta di fantasmagoria, allestisce e
governa la «stanza segreta» dell’eros, smuove il «mistero» che parte dalla sua
bocca e investe l’amante, irretendolo per sempre nella voluta del desiderio.
«Bocca», «bacio», «odore»: nuovi sensi intervengono sulla scena della lirica
d’amore, accanto a quelli tradizionali della vista e dell’udito, che in realtà
rappresentano la base percettiva della terza e ultima sequenza del libro, «Su
un’isola si aspetta». Al centro dell’opera sta una breve sequenza, un poemetto
a sé che sembra derivare da una collana di pseudo-haiku, dedicati tutti al Mont
Saint Michel. È una cesura perfetta, che fa da soluzione di continuità tra le
due sezioni principali e più ampie: la prima, dominata dalla figura dell’amata,
e l’ultima, dove un paesaggio più vasto (ci sono isole, certo, ma anche città e
quartieri che sembrerebbero perfettamente assimilabili a isole anch’essi, o
comunque visti e vissuti come tali) ci introduce all’assenza e all’attesa, in
perfetta simmetria con la prima. Qui la marea mima il movimento amoroso, isola,
mare e sabbia ne divengono i simboli. Bracco ha sapientemente costruito un
piccolo canzoniere privato (ma ogni canzoniere, in quanto riflesso di
un’esistenza travasata in versi, lo è), riprendendo la stessa struttura che era
del suo modello esplicito.
Così, se nelle prime poesie
azione e pensiero si scambiamo incessantemente le parti lasciandosi soggiogare
dalla visione della donna, nelle ultime il soggetto si trova a fare i conti con
se stesso. È qui, probabilmente,
che «viene incrinato il mistero» adombrato dalla presenza femminile, come
scrive Elio Pecora in prefazione. A legare le due sezioni, inoltre, c’è l’andamento
da diario mensile, ovvero quel senso di vulnerabilità del tempo a cui entrambi,
amante e amata, sono inevitabilmente costretti, con le loro storie – anche corporali
– e i loro luoghi. La scommessa è sempre quella di «arrivare ai confini della
sera / col bagaglio ben fatto / e una carezza non occasionale», «impigliarsi» o
«posarsi» come la piuma sintetica scesa sul balcone.
Giovanni Bracco, Le grandi mani
calme, prefazione di Elio Pecora, La Vita Felice, 2015, e. 12.00.
Di notte nella stanza luci rosse
di radiosveglia tracciano
ai pensieri la pista di
atterraggio.
Ma io li ricaccio in volo
nella profondità folle dei sogni.
Dovrei farlo stanotte che mi
manchi
dentro la pancia, nel mio nero
cuore.
Ma è un grumo nero il cuore
e tu farfalla vento verde neve.
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