C’è più che un residuo di orfismo, nella poesia dei moderni. Non mi
riferisco alla sua parte più evidente, quella che dai romantici, attraverso i
simbolisti, tracima nel pieno del Novecento, tra Rilke e Ungaretti:
quell’orfismo verticale, quel senso della discesa che sembra sfumare certi
connotati psicologici per tentare di riappropriarsi, invece, dei significati
profondi. La poesia al posto dell’Essere oppure, come sarebbe avvenuto di lì a
breve, la fusione tra i due, sebbene in altro contesto e con altre intenzioni.
Accanto a questa dominante c’è stato, meno pervasivo forse ma con uguale
densità, un orfismo orizzontale. Ve ne sono già le tracce in Leopardi, accanto
al pensiero-immagine del naufragio, e lo stesso può riscontrarsi in Rilke. È
l’orfismo che circoscrive una precisa fenomenologia dello sguardo: quella di
chi sceglie di guardare nonostante.
Accade anche a Montale. Forse un
mattino andando in un’aria di vetro racconta l’esperienza di uno sguardo
che è costretto a rivolgersi per potersi finalmente imbattere nel nulla, in un
mondo percepito solo come «rappresentazione», come lo aveva inteso
Schopenhauer. E come i poeti, secondo Marina Cvetaeva, si possono suddividere
in quelli con storia, che non si voltano mai indietro, e quelli senza storia, i
lirici che si voltano, così gli uomini vengono definitivamente spartiti tra
quelli che si pongono il problema di voltarsi e quelli per cui la vita è solo
tempo, un vettore che sfreccia in avanti. Cvetaeva non ha pensato a Montale, e
neppure a Eliot. Questi hollow men
che si aggirano nel deserto della contemporaneità, protesi al loro
inconoscibile futuro e quindi alla morte, sono forse l’emblema più alto di una
reificazione che ottunde le coscienze. Chi invece si è voltato, si è imbattuto
nel «terrore», ma ha conquistato un «segreto» non condivisibile. La verità dei
poeti è irresponsabile, cieca.
Lo sguardo orfico, per poter agire, si lega dunque a un impedimento.
Può trattarsi di un accidente naturale, come lo schermo di una siepe; può
ancora esprimersi sotto la specie di un divieto, così da provenire direttamente
dalle regioni del mito; e ancora al mito, infine, l’impedimento deve quella che
è probabilmente la caratteristica più suggestiva, quella della velocità. Non è
una velocità fine a se stessa, ma che induce, provoca altra velocità. Nel Manuale di zoologia fantastica di Borges
ne ritroviamo un esempio evidente, che è, nello stesso tempo, un formidabile
vettore ermeneutico. Borges riporta quella che gli viene presentata come una leggenda
dei boscaioli del Wisconsin. In quelle lande deserte, tra i boschi secolari e i
tronchi smisurati, la solitudine elabora la paura, e la paura a sua volta crea
una sua precisa forma simbolica. È quella di una strana creatura, denominata
«Hide-behind», che sta nascosta dietro di noi, alle nostre spalle. Che ognuno
abbia il proprio Hide-behind è solo un’efficacissima allegoria. Si può
mostrare, questa creatura del nostro inconscio? Certamente no. Tutte le volte
che proviamo a guardarla, compiendo l’atto di voltarci, lo Hide-behind si è già
spostato, così che risulta impossibile focalizzarlo. Lo spazio della visione si
fa estremamente mobile, al punto da annullarsi: lo sguardo resta impotente, e
isolato. Non si stabilisce alcuna reciprocità.
Questo accade, aggiunge Borges, perché lo Hide-behind è sempre più
veloce di noi. Qui l’allegoria sembra complicarsi e aggiungere, all’evidenza
della base psicologica, un ulteriore tasso di metaforicità. È una spiegazione,
quella della velocità, che però ci costringe a fare i conti, questa volta, con
la nostra diversa velocità. Era accaduto anche all’Orfeo di Rilke. «Agile», lo
sguardo sempre rivolto verso la soglia estrema che riconduce al mondo dei vivi,
un solo arduo obiettivo da raggiungere, investendo in una fiducia assoluta. I
due sensi maggiori della percettività moderna, vista e udito, non vengono in
soccorso: il primo è soggetto a un divieto, il secondo si scontra con il
silenzio assoluto degli inferi. Il primo «si aggirava come un cane», mentre
tutto il corpo del poeta «divorava la strada a grandi morsi»: rappresentazione
di una ferinità decisa, per cui la conoscenza, anche quella della morte, passa
attraverso la fame e la sete, come suggerisce Tommaso d’Aquino. Il secondo
senso, invece, è rivolto «indietro come resta un’ombra». La luce della
conoscenza, e della verità, filtra attraverso il solo senso libero di voltarsi,
e un’ombra viva si proietta sul sentiero delle ombre morte. «Essi verranno», prova
a dire Orfeo, quasi tentando un’ultima formula magica, un rito privato tra
desiderio e dubbio: ma la sua voce potente, laggiù, è destinata a spegnersi,
come l’urlo di un incubo. «E tuttavia venivano, ma due / dal lentissimo passo».
Euridice, nel testo di Rilke, è scortata da Hermes, il dio della
velocità per antonomasia. Anche lui, però, deve scontare un impedimento e
contenere la forza degli attributi divini: l’ombra che sta accompagnando è
ancora avvolta nel sudario, e questo rallenta il cammino, ma si tratta soltanto
di un’immagine necessaria, ovvia. Quel sudario è piuttosto il simbolo, l’habitus di una condizione nuova: quella
che Rilke chiama «grossen Tode», la «grande morte». La morte come esperienza
irreversibile, e per contrasto, rigeneratrice. La morte come solitudine
altissima, che riporta Euridice a se stessa, e non ne fa più semplice oggetto
di canto. La morte è «grossen» perché la riscatta da uno stato di passività e
la rende, finalmente, soggetto. Un soggetto in grado di rifiutarsi, lei che
sembra non capire nulla di quanto le accade intorno, e che «mite e paziente»
risale e infine ridiscende per la terza volta (caso unico nel repertorio del
mito) il sentiero che passa tra i vivi e i morti. Lei che ormai appartiene solo
a se stessa.
Ciò che la figura di Euridice suggerisce, nella lettura che ne dà
Rilke, non è tanto l’irrimediabilità della morte e il distacco che ne consegue,
quanto il raggiungimento, la conquista accidentale di uno status di libertà e di affrancamento. Nonché di potere, anche se si
tratta di una facoltà paradossale, per chi la giudica dalla parte dei vivi.
Rilke disegna un quadro suddiviso in due assi semantici, fa della morte una
vera e propria polarità: il mondo dei vivi è ovvio, quello dei morti rovescia
questa ovvietà e ripiega su se stesso, marcando la propria superiorità e
indipendenza. Qui, nel fondo dell’Ade, ciò che ai vivi è dato una sola volta è
dato invece per sempre: sono le parole che Claudiano dona a Plutone per
consolare Proserpina del forzato distacco dalla madre, e che Euridice sembra
accettare in pieno. Su questa nuova forza può finalmente imbastire una
risposta, ovvero prendere parola.
La prima parola che pronuncia la “nuova” Euridice, in Rilke, serve a
ribadire la sua totale estraneità al mito. Quando Hermes, con la voce mesta, le
comunica che Orfeo si è voltato, lei non può che pronunciare quell’estraneità
nella forma di una domanda assoluta: «Chi?». La sua assenza, per questa via,
non è soltanto quella di una soglia varcata per sempre, ma un’indifferenza
indotta da una consapevolezza inaudita. Se Orfeo ha ancora potuto riconoscerla,
lei invece non è più in grado di farlo. «Mite e paziente» segue il percorso
verso la vita, ma questo non la riguarda più. Se Orfeo fosse riuscito
nell’impresa, avrebbe trascinato con sé un involucro vuoto, un fantasma del
passato: qualcuno profondamente estraneo, perfino ostile. Qualcuno destinato a
non appartenergli. È a questo punto che la poesia deve fare un passo indietro e
riportarci al momento in cui il poeta incontra la donna e la riconosce fra
tante altre ombre. O è piuttosto Euridice a riconoscere Orfeo e a scagliargli
addosso le parole estreme del distacco?
È l’espediente a cui ricorre Marina Cvetaeva. Il discorso appena
avviato da Rilke con l’interrogativo rivolto a Hermes prosegue, e ancora per
noi si conclude, con il monologo serrato con cui Euridice investe Orfeo: «il
nuovo incontro è spada». La polarità di Rilke giunge qui al pieno compimento:
«in questa casa / illusoria tu, vivo, sei fantasma, e vera / io, morta». Orfeo
«non deve scendere a Euridice». La verità è nella mano di lei, che provocatoriamente, proprio mentre stanno
per concludere il mito, tocca la spalla di lui e lo costringe istintivamente a
voltarsi. Lei sa che quel gesto improvviso e imprevisto l’avrebbe riconsegnata
per sempre alla sua nuova natura, alla ritrovata libertà in se stessa. Quello
sguardo non può più essere reciproco, com’era stato, anche se per un solo
istante, quello della passante di Baudelaire. La tensione è tale da renderlo un
campo magnetico, dove i due poli uguali si respingono necessariamente. Ma perché
sono divenuti uguali?
Euridice viva è materia del canto, emittente e destinataria di una
gioia che si fa potenza pervasiva. Euridice morta è ancora materia di poesia,
ma nell’assenza e nella negazione, «così che un mondo fu lamento», traduce
Pintor da Rilke. Il mito regredisce allo stato di metafora primaria e diviene,
ancora una volta, allegoria della condizione della poesia per i moderni, così
che Euridice stessa può essere assimilata a questa poesia che disperatamente
nasce dopo la morte della poesia. Euridice è
la poesia, è una perfetta ipostasi di questa poesia che canta la propria
assenza. Per questo, come scriveva Marina Cvetaeva, non senza una certa
aggressività, «I fratelli non devono turbare le sorelle». Tra il poeta e la
donna amata e inseguita fino all’Ade la poesia scende come un tabù, la morte -
come esperienza e come limite - sancisce il riconoscimento di un’uguaglianza. Per
questo il mito era destinato a non chiudersi, tra l’impedimento e
l’incompiutezza. Nessuno meglio di un moderno avrebbe potuto comprenderlo. La
poesia, per lui, è ormai irrimediabilmente oltre.
Raggiungerla è impresa impossibile, lo sguardo non è ricambiato, gli occhi
della poesia respingono. Si può ricordare, desiderare, pensare la poesia, ma
non è più dato di farla. Si può solo pensare Euridice. E come la poesia, questa
figura porta con sé una verità «irresponsabile e senza conseguenze»; quella
verità che «non bisogna neanche cercare di inseguire, giacché anche per i poeti
essa è senza ritorno».
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