Qualche giorno fa, pensando alla
scomparsa di Nelo Risi, mi sono trovato più volte a ricordare Luciano Erba.
Viene quasi naturale, per molte ragioni. Intanto perché, nelle storie e nelle
antologie della poesia italiana del secolo scorso, i loro nomi sono spesso
apparentati nella «linea lombarda» o nel più generico ambito del
post-ermetismo; insomma, uno chiama l’altro, e di entrambi è evidenziata una
certa componente razionale, o raziocinante. Ma ricordi e persone si allineano
per noi, in noi, in una strana catena della memoria, che coinvolge situazioni e
incontri, episodi e imprevisti. L’ho dichiarato più volte, Erba è uno dei miei
poeti preferiti: quel suo fondere intelligenza e tenerezza, sempre così
sapiente eppure leggero, mi ha sempre dato un grande piacere di lettura.
Mi sono imbattuto nei suoi versi
tramite le antologie, quand’ero ancora studente. Erano gli anni delle scoperte,
certo, ma anche delle esplorazioni di libri: quando mi trovavo fuori Roma
giravo per vecchie librerie o reminders sperando sempre di trovare qualche
titolo interessante di Guanda, Mondadori o Garzanti. Ero all’Aquila, dove
viveva mio padre e dove spesso andavo a studiare, lontano dai rumori di Roma.
Nella storica libreria Colacchi trovai una prima edizione di Dopo Campoformio di Roversi; accanto,
ricordo, c’era una copia de L’ippopotamo,
appena apparso da Einaudi. Sarà stato il clima estivo, quel misto di luce e
ombra che in certi pomeriggi di luglio ti fa improvvisamente realizzare di
trovarti immerso in una dimensione tipicamente italiana, tra viuzze, tetti,
palazzi e case basse, in un susseguirsi continuo di calore e frescura, quando
la frescura porta con sé l’odore di qualcosa di molto antico, che lì per lì non
sai riconoscere, ma che dopo pochi passi ti richiama, all’improvviso, qualche
rapido scorcio della tua infanzia; saranno state le vecchie mensole della
libreria, il loro aspetto da vecchio emporio; sarà stato per questo, ma leggere
quelle poesie d’amore, scritte in assenza, come un trovatore, fu come riascoltare
una voce interna. Qualche mese dopo, a Roma, nella libreria Rizzoli della
galleria Colonna, che ora non c’è più, trovai fortunosamente Il nastro di Moebius, il libro con cui
aveva vinto il premio Viareggio molti anni prima, e fu naturalmente una
conferma. Poi, in una libreria antiquaria, fu il turno de Il prato più verde.
Lo avrei conosciuto di persona, e
avrei parlato con lui dei poeti amati, dei miei studi, ma il primo vero
incontro fu proprio con le poesie dell’Ippopotamo,
che resta per me uno dei libri più felici dell’ultimo scorcio di Novecento:
«Quell’azzurro di luglio senza te», «Se mai ti ricorderò come una madonna
senese»… Un’Italia riconoscibile eppure sotterranea, celata in qualche zona della memoria, riaffiorava
in quell’estate dell’89. Ci fu anche l’occasione di un viaggio. Alla fine degli
anni Novanta collaboravo con l’università di Roma Tre e Giulia Lanciani, che
aveva la cattedra di portoghese, ebbe la possibilità di organizzare uno scambio
tra poeti italiani e lusitani. Mi chiese di farle alcuni nomi, e alcuni mesi
dopo ci ritrovammo a Lisbona con Silvio Ramat, Elio Pecora, Maria Luisa
Spaziani e Luciano Erba. La sera del giorno successivo al nostro arrivo
l’Istituto Italiano di Cultura ci avrebbe ospitato per una lunga sessione di
lettura e di confronto, ma Luciano, invece di riposarsi, ci coinvolse in una
gita a Sintra. Era il più curioso del gruppo, il più affamato di immagini: ricordo
il suo passo velocissimo lungo le mura del castello, la mia sorpresa di
scoprirlo ancora così agile e Silvio che mi confermava la sua abilità sui
sentieri di montagna. Ricordo le ali che faceva il suo impermeabile, mentre
avanzava osservando minuziosamente il paesaggio, fin dentro i dettagli che a me
sfuggivano per la novità e l’eccesso.
Poi ci furono gli incontri in
Sicilia. Il treno dei poeti, la prima grande manifestazione di poesia voluta da
Antonio Presti. Andai a Catania, da lì salimmo sulla Circumetnea fino a Bronte.
C’era Enzo Iachetti che ci intervistava, sembrava tutto surreale, in un marzo
freddissimo. Alla stazione di Bronte io e sua moglie fummo fatti scendere, per
fare spazio ad altri poeti e ad altri ascoltatori. Lì, nel piccolo bar, ci
consolammo, nell’attesa che la littorina ripassasse, con una torta al
pistacchio.
Quindi ci fu il premio Mondello,
fortemente voluto dai poeti della giuria, per l’Oscar che raccoglieva le sue
poesie. Fu una vera festa, per Luciano. A Palermo, nella hall dell’Hotel delle
Palme, ci ritrovammo a parlare di autori e letture; era molto incuriosito dai
miei corsi sugli sviluppi della poesia moderna, chiedeva informazioni sui
tracciati che andavo disegnando di anno in anno. Nel 2003, infine, l’Unesco mi
chiese di organizzare una manifestazione di poesia a Palermo, e Luciano venne
di nuovo a parlarci e a leggere i suoi versi. Non lo avrei più rivisto. Negli
ultimi anni gli impegni ci avevano tenuti distanti: più volte, se mai avessi
deciso di salire a Milano, mi aveva offerto ospitalità, ma non accadde mai.
Quelle conversazioni mancate mi lasciano un po’ di rammarico, e qualche volta
mi diverto a inventarle, mettendo insieme citazioni dai suoi libri. È un modo,
un po’ infantile, per far finta che Luciano sia ancora qui. Forse a lui sarebbe
piaciuto.
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