domenica 4 ottobre 2015

Per Luciano Erba



Qualche giorno fa, pensando alla scomparsa di Nelo Risi, mi sono trovato più volte a ricordare Luciano Erba. Viene quasi naturale, per molte ragioni. Intanto perché, nelle storie e nelle antologie della poesia italiana del secolo scorso, i loro nomi sono spesso apparentati nella «linea lombarda» o nel più generico ambito del post-ermetismo; insomma, uno chiama l’altro, e di entrambi è evidenziata una certa componente razionale, o raziocinante. Ma ricordi e persone si allineano per noi, in noi, in una strana catena della memoria, che coinvolge situazioni e incontri, episodi e imprevisti. L’ho dichiarato più volte, Erba è uno dei miei poeti preferiti: quel suo fondere intelligenza e tenerezza, sempre così sapiente eppure leggero, mi ha sempre dato un grande piacere di lettura.
Mi sono imbattuto nei suoi versi tramite le antologie, quand’ero ancora studente. Erano gli anni delle scoperte, certo, ma anche delle esplorazioni di libri: quando mi trovavo fuori Roma giravo per vecchie librerie o reminders sperando sempre di trovare qualche titolo interessante di Guanda, Mondadori o Garzanti. Ero all’Aquila, dove viveva mio padre e dove spesso andavo a studiare, lontano dai rumori di Roma. Nella storica libreria Colacchi trovai una prima edizione di Dopo Campoformio di Roversi; accanto, ricordo, c’era una copia de L’ippopotamo, appena apparso da Einaudi. Sarà stato il clima estivo, quel misto di luce e ombra che in certi pomeriggi di luglio ti fa improvvisamente realizzare di trovarti immerso in una dimensione tipicamente italiana, tra viuzze, tetti, palazzi e case basse, in un susseguirsi continuo di calore e frescura, quando la frescura porta con sé l’odore di qualcosa di molto antico, che lì per lì non sai riconoscere, ma che dopo pochi passi ti richiama, all’improvviso, qualche rapido scorcio della tua infanzia; saranno state le vecchie mensole della libreria, il loro aspetto da vecchio emporio; sarà stato per questo, ma leggere quelle poesie d’amore, scritte in assenza, come un trovatore, fu come riascoltare una voce interna. Qualche mese dopo, a Roma, nella libreria Rizzoli della galleria Colonna, che ora non c’è più, trovai fortunosamente Il nastro di Moebius, il libro con cui aveva vinto il premio Viareggio molti anni prima, e fu naturalmente una conferma. Poi, in una libreria antiquaria, fu il turno de Il prato più verde.
Lo avrei conosciuto di persona, e avrei parlato con lui dei poeti amati, dei miei studi, ma il primo vero incontro fu proprio con le poesie dell’Ippopotamo, che resta per me uno dei libri più felici dell’ultimo scorcio di Novecento: «Quell’azzurro di luglio senza te», «Se mai ti ricorderò come una madonna senese»… Un’Italia riconoscibile eppure sotterranea, celata in  qualche zona della memoria, riaffiorava in quell’estate dell’89. Ci fu anche l’occasione di un viaggio. Alla fine degli anni Novanta collaboravo con l’università di Roma Tre e Giulia Lanciani, che aveva la cattedra di portoghese, ebbe la possibilità di organizzare uno scambio tra poeti italiani e lusitani. Mi chiese di farle alcuni nomi, e alcuni mesi dopo ci ritrovammo a Lisbona con Silvio Ramat, Elio Pecora, Maria Luisa Spaziani e Luciano Erba. La sera del giorno successivo al nostro arrivo l’Istituto Italiano di Cultura ci avrebbe ospitato per una lunga sessione di lettura e di confronto, ma Luciano, invece di riposarsi, ci coinvolse in una gita a Sintra. Era il più curioso del gruppo, il più affamato di immagini: ricordo il suo passo velocissimo lungo le mura del castello, la mia sorpresa di scoprirlo ancora così agile e Silvio che mi confermava la sua abilità sui sentieri di montagna. Ricordo le ali che faceva il suo impermeabile, mentre avanzava osservando minuziosamente il paesaggio, fin dentro i dettagli che a me sfuggivano per la novità e l’eccesso.
Poi ci furono gli incontri in Sicilia. Il treno dei poeti, la prima grande manifestazione di poesia voluta da Antonio Presti. Andai a Catania, da lì salimmo sulla Circumetnea fino a Bronte. C’era Enzo Iachetti che ci intervistava, sembrava tutto surreale, in un marzo freddissimo. Alla stazione di Bronte io e sua moglie fummo fatti scendere, per fare spazio ad altri poeti e ad altri ascoltatori. Lì, nel piccolo bar, ci consolammo, nell’attesa che la littorina ripassasse, con una torta al pistacchio.
Quindi ci fu il premio Mondello, fortemente voluto dai poeti della giuria, per l’Oscar che raccoglieva le sue poesie. Fu una vera festa, per Luciano. A Palermo, nella hall dell’Hotel delle Palme, ci ritrovammo a parlare di autori e letture; era molto incuriosito dai miei corsi sugli sviluppi della poesia moderna, chiedeva informazioni sui tracciati che andavo disegnando di anno in anno. Nel 2003, infine, l’Unesco mi chiese di organizzare una manifestazione di poesia a Palermo, e Luciano venne di nuovo a parlarci e a leggere i suoi versi. Non lo avrei più rivisto. Negli ultimi anni gli impegni ci avevano tenuti distanti: più volte, se mai avessi deciso di salire a Milano, mi aveva offerto ospitalità, ma non accadde mai. Quelle conversazioni mancate mi lasciano un po’ di rammarico, e qualche volta mi diverto a inventarle, mettendo insieme citazioni dai suoi libri. È un modo, un po’ infantile, per far finta che Luciano sia ancora qui. Forse a lui sarebbe piaciuto.

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