lunedì 16 maggio 2016

Per i 70 anni di Biancamaria Frabotta






Il prossimo 11 giugno Biancamaria Frabotta compirà settant’anni e si congederà dall’insegnamento, almeno formalmente, tenendo l’ultima lezione il 31 maggio presso l’Università di Roma «La Sapienza», dove ha impartito i corsi di Letteratura italiana contemporanea per un quarantennio. Argomento di quest’ultimo colloquio, che vedrà riuniti per l’occasione studenti del triennio e del biennio magistrale, colleghi, amici, ex-studenti, sarà ancora una volta Giorgio Caproni, l’autore a cui la poetessa e studiosa ha dedicato le sue maggiori energie.
Da ex-studente poi divenuto collega, non mancherò a questo invito speciale. In realtà, pur avendola avuta come correlatrice della mia tesi di laurea, non ho mai sostenuto direttamente esami con lei, ma la curiosità di allora mi spingeva a entrare anche nelle aule altrui, e Biancamaria teneva quasi sempre corsi sulla poesia contemporanea, una ragione in più per assistervi. Ricordo infatti la mia grande sorpresa, in una tarda mattina della primavera del 1985, quando aprii la porta dell’aula dove teneva lezione e mi imbattei direttamente in Giorgio Caproni, che leggeva per noi studenti, in anteprima, alcuni versi da Il Conte di Kevenhüller. Quelle poesie sarebbero apparse in volume solo l’anno seguente.
Con le sua dita legnose, affilatissime, il vecchio poeta sfogliava lentamente i foglietti che aveva portato con sé: fogli A4 tagliati a metà, su cui aveva battuto a macchina i suoi testi. Sembrava un cartomante che dispiegava i tarocchi sulla cattedra per prepararci a qualche vaticinio tutt’altro che rassicurante, come sarebbe accaduto con le poesie postume di Res amissa; ma in quel momento la sua voce non ci faceva pensare alla “cosa perduta”, a quanto stavamo già perdendo in quegli anni così apparentemente rassicuranti quanto disastrosi, ma a un destino che si allontanava a ogni sillaba, e che si allontanava in qualche spazio remoto del nostro futuro insondabile. La Bestia prendeva forma nei nostri ragionamenti, nelle nostre conversazioni, cominciava ad abitare le zone più intime della nostra quotidianità. Una volta scoperta, ci avrebbe accompagnato per sempre.
Devo dunque a Biancamaria, fra le altre cose di cui mi sento debitore con lei, la consapevolezza della Bestia e la scoperta di un poeta come Caproni: ma il suo impegno nella letteratura del presente si è speso in tante direzioni (qualche anno dopo, aprendo la stessa porta, incrociai Francesca Sanvitale, con cui sarebbe nata un’ulteriore, importante amicizia) che sarebbe difficile riassumere. Ogni volta che la poesia ha potuto far sentire la propria voce di fronte al fango della politica, ai mutamenti e alle urgenze sociali, Biancamaria Frabotta non si è mai sottratta e ha pronunciato le sue parole; la sua presenza, fisica, in prima persona, ha scandito i momenti essenziali di quasi cinquant’anni di poesia, e dunque di storia privata e civile. Da Affeminata fino a Da mani mortali quello che ci si offre è un percorso di continua crescita e maturazione, di incessante riflessione e assimilazione della realtà e dei suoi richiami; anche laddove la sua poesia sembra ripiegarsi nella dimensione domestica degli affetti coniugali, in realtà non cessa mai, con una sorta di sguardo strabico, a mantenere l’attenzione sui fatti comuni.

Questa lezione di civiltà non potrà certo esaurirsi tra gli applausi del 31 maggio. L’augurio, per lei, è di garantire ancora la sua presenza, in questo avvenire pieno d’ipoteche, per aiutarci a restare svegli, e sempre disponibili all’ascolto dei poeti; senza i quali, naturalmente, la nostra coscienza risulterebbe impoverita, e anche il nostro vissuto dileguerebbe sulla superficie di facili nostalgie, perdendo ogni autentico spessore. Di ciò che siamo adesso, in ogni momento della nostra vita, la poesia intuisce il segreto, sulla cui soglia il nostro dire consueto si arrende. Al di là di quella resa sta la lingua dei poeti; sta la tensione con cui il finito si riappropria dell’infinito. Sta, in definitiva, il dialogo col mondo. Grazie, Biancamaria, per i tuoi settant’anni.

martedì 10 maggio 2016

AILANTO n. 31 - Su Maria Attanasio



C’è un bellissimo verso di Auden in cui si paragona una crepa in una tazza a un sentiero verso l’Ade; anzi, quella crepa, per il poeta, «apre un sentiero verso il mondo dei morti». Non riuscirei a trovare epigrafe migliore, o più agile chiave di accesso, a questo nuovo libro in versi di Maria Attanasio, Blu della cancellazione, che segue a ben tredici anni il precedente Amnesia del movimento delle nuvole (entrambi per La Vita Felice), avvalendosi di una prefazione di Antonella Anedda. C’è, nella scrittura di quest’autrice – e non solo in quella in versi – il continuo attraversamento di un diaframma sottilissimo tra il mondo delle percezioni ordinarie e una dimensione che solo in superficie sembra appartenere alla storia, ma che piuttosto la trascende; forse è una caratteristica di certi scrittori siciliani, perché un movimento analogo si può riscontrare anche in Sciascia, in colui che parrebbe il più illuminista di tutti, ma che preferisco leggere in una prospettiva antinaturalistica. Questa dimensione ci rimanda a un universo ctonio, stregonesco, fatto di fluidi, pestilenze, inquisizioni, esecuzioni; qualcosa che certamente possiamo riscontrare nel passato storico, se non fosse che in Maria Attanasio è sempre protagonista il corpo, e tutto ciò che lo porta a farsi margine, confine estremo che pulsa e che cerca incessantemente un nuovo confine, parola che scava: «la parola / frontale – che s’inabissa, risale», leggiamo proprio in apertura.
Questo corpo-parola è proprio la crepa tra i due mondi. È grazie ad esso (corpo della poesia, corpo della materia, corpo dell’autrice) che il vissuto può tornare a manifestarsi, in forme spesso visionarie, accentuate da una tecnica che procede per giustapposizione, per accumulo di immagini (e in questo le poesie di Maria Attanasio sono e restano profondamente barocche, nella forma e nella costruzione più che nello stile). Ma si tratta di un vissuto che va oltre se stesso, spingendosi verso altri vissuti che continuano a parlare dal mare indifferenziato della storia, delle storie. Attanasio è davvero un poeta dello scavo, la sua matrice è ungarettiana. Il suo verso s’incunea nei meandri, nelle scissure, risale «il greto della mutazione», asseconda il tempo e le sue metamorfosi solo per diventarne padrone e usarlo a suo piacimento. E l’azione dello scavo si svolge nel buio delle viscere («buio» è termine ricorrente in queste poesie), lì dove pulsa il sangue. A dispetto sia del titolo che dell’osservazione di Anedda, la quale rinviene nel grigio la tonalità dominante del libro, è invece il rosso ad affermarsi – e a confermarsi – come la rappresentazione cromatica più efficace, stravolgente ed espressionistica, del contatto che l’autrice instaura tra vivi e morti. Una delle sezioni più coinvolgenti della raccolta è proprio quella in cui il fantasma materno si manifesta sullo sfondo della guerra, ma non in forme nostalgiche che sono sempre rimaste estranee a Maria Attanasio, quanto nel dissidio, ancora aspro e aperto, tra desiderio e impedimento, tra lotta e oppressione.
È da questa ulteriore «crepa» che la «scrittura disobbediente» di questa poeta recupera una carica, un’energia civile davvero insolita; non per la sua frequenza, ma per gli esiti, che ci insegnano quanto la critica al presente possa svolgersi per simboli o allegorie, nella specie indiretta di uno scavo apparentemente incongruo, eppure coerente. A volte, per vedere meglio, dobbiamo metterci di lato, o, per restare in tema di Sicilia, rovesciare il cannocchiale.

Maria Attanasio, Blu della cancellazione, pref. di Antonella Anedda, La Vita Felice 2016, e. 12.00

(Man-d-orlo)
Dalla cima alle radici
dell’albero dei nomi: il mandorlo
si spezzò in man e orlo – orlo di vita
scucito e ricucito ogni mattina –
la d balbettando volò via.
Taci, trattieni il respiro sorellina,
l’ora delle parole dormienti
si fa vicina, vicina.

lunedì 2 maggio 2016

AILANTO n. 30 - Su Vivian Lamarque


Il tema dell’orfanità ha attraversato, in maniera ora più evidente, ora più tangenziale, la poesia di Vivian Lamarque, nelle forme di un rapporto difficile soprattutto con la figura materna, incarnata da una «madre biologica» e da una madre adottiva, non senza qualche sfasatura di ruolo. Con le nuove poesie di Madre d’inverno, appena apparse nello Specchio mondadoriano a vent’anni esatti da quelle raccolte in Una quieta polvere, l’autrice affronta direttamente la questione e tenta di dirimerla, con un piglio che per certi aspetti potrebbe definirsi petrarchesco. Questo libro, infatti, si attesta come una sorta di canzoniere in morte, dove però le due figure materne sono rievocate con i toni che non vogliono essere quelli della celebrazione, ma della verità minuta, della realtà quotidiana, come è, da sempre, nello stile di Lamarque: dove è proprio l’osservazione minimalista, e la suadente musica in rima che spesso la scandisce, a riportare all’attenzione verità ben più grandi. Ammesso che esistano in questo piccolo ma complesso universo di figure famigliari.
Con la sapienza della maturità, e con la sua lente che riesce finalmente a mettere a fuoco gli eventi del passato, sia prossimo che distante, Vivian Lamarque affronta la perdita delle due madri nella chiave a lei non inconsueta del ritratto, la cui cornice è costruita attraverso una precisa modulazione del tempo; ed è questo l’elemento di novità del libro, e quanto di originale è condotto all’interno di un filone tematico assai caro al nostro Novecento migliore. «Sei tu che resti, o tempo, e io che vado», cita il poeta dal petrarchista Gongora, e potrebbe essere questa la vera epigrafe del volume, la sua più autentica chiave di accesso. Lamarque usa il tempo come una cornice digitale, che muta rapidamente le immagini oppure le ingrandisce o le allontana, inventando un tempo ulteriore, tutto suo, dove memoria e sentimento (che avrebbero fatto la felicità di un altro petrarchista, Leopardi, la cui eco si avverte neppure troppo sotterraneamente di testo in testo) congiurano insieme nell’invenzione di una prospettiva. La prima sequenza, la più prossima alla cronologia, ci introduce in una stanza d’ospedale, nel letto della madre morente. Avvertiamo tutti i sintomi della fine imminente, declinata perfino attraverso i nomi delle medicine, ma quando questa infine giunge, l’autrice rinuncia a raccontarla e ne fa invece una splendida, disarmante metonimia. Si legga Siberia: «Poco prima a casa sentivo / un gelo una Siberia / mi ero fatta un tè. Bollente / mi si era rovesciato sul ventre, / sulla mano, sullo squillo del telefono /già in giro per l’aria». La morte giunge come notizia attraverso uno dei suoi connotati, il gelo, in aperto contrasto con il calore della bevanda; ed è sintomatica anche la quasi rima bollente:ventre, che a quella notizia oppone, per un istante, il luogo della nascita.
Questa prima sezione, la più prossima alla madre-in-vita, occupa una porzione minima del libro, il cui resto, in una forma volutamente asimmetrica, è invece occupato dal ricordo, ampliato anche alla seconda figura materna, la «madre l’altra», e a una serie di presenze/assenze di ambito sempre famigliare o amicale. A questo passato prossimo ospedaliero segue dunque un secondo tempo, quello del passato che ritorna nel dopo-morte (e infatti la figura materna vi si aggira come un «fantasma». Il terzo tempo è quello che potremmo definire di un ipotetico dell’irrealtà, e coinvolge la madre biologica.  Il quarto tempo è quello della consapevolezza della propria finitudine, una sorta di futuro prossimo; infine il quinto è un passato corale, dove la visuale, finora contenuta tra i due fuochi materni, si amplia verso altre figure importanti nella vita dell’autrice. Eppure, tra tutti, l’unico vero tempo, l’unico che sembra avvicinarsi alla sostanza del presente, è quello del «basta», quello che finalmente sigla la rinuncia alla condizione dell’orfana, affidandosi ai sobbalzi di ciò che verrà.

Vivian Lamarque, Madre d’inverno, Mondadori 2016, e. 19.00


Basta orfanità

                             a me stessa
Basta basta noi, già vecchi
con le nostre vecchie storie
di orfanità!
Siamoci noi a noi stessi padri
di tutte le mancate età, così
come fanno i fili d’erba
spuntati da fili già falciati
e con questo?

Oggi padre non ti assillerei più con i miei “perché”…
Perché non torni dunque?
(Alberto Savinio)