Il tema dell’orfanità ha
attraversato, in maniera ora più evidente, ora più tangenziale, la poesia di
Vivian Lamarque, nelle forme di un rapporto difficile soprattutto con la figura
materna, incarnata da una «madre biologica» e da una madre adottiva, non senza
qualche sfasatura di ruolo. Con le nuove poesie di Madre d’inverno, appena apparse nello Specchio mondadoriano a
vent’anni esatti da quelle raccolte in Una
quieta polvere, l’autrice affronta direttamente la questione e tenta di
dirimerla, con un piglio che per certi aspetti potrebbe definirsi petrarchesco.
Questo libro, infatti, si attesta come una sorta di canzoniere in morte, dove
però le due figure materne sono rievocate con i toni che non vogliono essere
quelli della celebrazione, ma della verità minuta, della realtà quotidiana,
come è, da sempre, nello stile di Lamarque: dove è proprio l’osservazione
minimalista, e la suadente musica in rima che spesso la scandisce, a riportare
all’attenzione verità ben più grandi. Ammesso che esistano in questo piccolo ma
complesso universo di figure famigliari.
Con la sapienza della maturità, e
con la sua lente che riesce finalmente a mettere a fuoco gli eventi del
passato, sia prossimo che distante, Vivian Lamarque affronta la perdita delle
due madri nella chiave a lei non inconsueta del ritratto, la cui cornice è
costruita attraverso una precisa modulazione del tempo; ed è questo l’elemento
di novità del libro, e quanto di originale è condotto all’interno di un filone
tematico assai caro al nostro Novecento migliore. «Sei tu che resti, o tempo, e
io che vado», cita il poeta dal petrarchista Gongora, e potrebbe essere questa
la vera epigrafe del volume, la sua più autentica chiave di accesso. Lamarque
usa il tempo come una cornice digitale, che muta rapidamente le immagini oppure
le ingrandisce o le allontana, inventando un tempo ulteriore, tutto suo, dove
memoria e sentimento (che avrebbero fatto la felicità di un altro petrarchista,
Leopardi, la cui eco si avverte neppure troppo sotterraneamente di testo in testo)
congiurano insieme nell’invenzione di una prospettiva. La prima sequenza, la
più prossima alla cronologia, ci introduce in una stanza d’ospedale, nel letto
della madre morente. Avvertiamo tutti i sintomi della fine imminente, declinata
perfino attraverso i nomi delle medicine, ma quando questa infine giunge,
l’autrice rinuncia a raccontarla e ne fa invece una splendida, disarmante
metonimia. Si legga Siberia: «Poco
prima a casa sentivo / un gelo una Siberia / mi ero fatta un tè. Bollente / mi
si era rovesciato sul ventre, / sulla mano, sullo squillo del telefono /già in
giro per l’aria». La morte giunge come notizia attraverso uno dei suoi
connotati, il gelo, in aperto contrasto con il calore della bevanda; ed è
sintomatica anche la quasi rima bollente:ventre,
che a quella notizia oppone, per un istante, il luogo della nascita.
Questa prima sezione, la più
prossima alla madre-in-vita, occupa una porzione minima del libro, il cui
resto, in una forma volutamente asimmetrica, è invece occupato dal ricordo, ampliato
anche alla seconda figura materna, la «madre l’altra», e a una serie di
presenze/assenze di ambito sempre famigliare o amicale. A questo passato
prossimo ospedaliero segue dunque un secondo tempo, quello del passato che
ritorna nel dopo-morte (e infatti la figura materna vi si aggira come un
«fantasma». Il terzo tempo è quello che potremmo definire di un ipotetico
dell’irrealtà, e coinvolge la madre biologica. Il
quarto tempo è quello della consapevolezza della propria finitudine, una sorta
di futuro prossimo; infine il quinto è un passato corale, dove la visuale,
finora contenuta tra i due fuochi materni, si amplia verso altre figure
importanti nella vita dell’autrice. Eppure, tra tutti, l’unico vero tempo, l’unico
che sembra avvicinarsi alla sostanza del presente, è quello del «basta», quello
che finalmente sigla la rinuncia alla condizione dell’orfana, affidandosi ai
sobbalzi di ciò che verrà.
Vivian Lamarque, Madre d’inverno, Mondadori 2016, e. 19.00
Basta orfanità
a me stessa
Basta basta noi, già vecchi
con le nostre vecchie storie
di orfanità!
Siamoci noi a noi stessi padri
di tutte le mancate età, così
come fanno i fili d’erba
spuntati da fili già falciati
e con questo?
Oggi padre non
ti assillerei più con i miei “perché”…
Perché non
torni dunque?
(Alberto
Savinio)
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