sabato 11 ottobre 2014

AILANTO n. 8 - Su Marcia Theophilo



Il mondo poetico di Marcia Theophilo è un cosmo di memorie. Il suo ambiente, la sua dimensione più autentica è infatti quella della foresta amazzonica, ovvero di un habitat perennemente assediato, messo in crisi, sfruttato e annientato. Ciò di cui il poeta parla, canta, è destinato a rimanere sulla pagina nella forma di un racconto mitico, che non appartiene più al presente o al futuro, e neppure al passato più prossimo. Giustamente in questo nuovo libro, Amazzonia. L’ultima Arca, si parla di «archeologia amazzonica», di una percezione della grande foresta condizionata dalla sua incessante metamorfosi in negativo: delle immagini, dei riti, dei colori, dell’immensa varietà di animali e di alberi si potrà parlare, d’ora in poi, come se si fosse trattato di un sogno, di qualcosa che si potrà ricostruire solo attraverso le congetture dello scavo. Nella specie di ciò che più caratterizza i nostri desideri, il sogno appunto, Marcia Theophilo esprime invece la sua denuncia.
Non è la prima volta, nella vicenda di quest’autrice: anzi, tutta la sua poesia è votata, da sempre, al lamento civile per una felicità edenica, per un modello di cultura che non ha più spazio nel secolo della globalizzazione. E quella cultura è tutt’uno con l’ambiente in cui si è prodotta: nella lingua poetica di questi brevi canti, infatti, non c’è soluzione di continuità tra ciò che appartiene al naturale e ciò che appartiene all’umano. I suoni del portoghese brasiliano si fondono inevitabilmente con quelli delle lingue indie, con il loro immenso repertorio di dèi, di animali, di miti, e tutto ciò giunge all’orecchio europeo come un mantra magico, come una splendida fusione di ciò che la storia ci riconsegna attraverso i suoi strati. Anche il plurilinguismo, dunque, riconduce il lettore verso l’archeologia, mentre i tetri cromatismi della deforestazione prendono il posto dei mille verdi, e il sole – nuovamente testimone del disastro, com’è in tutta la tradizione poetica dell’occidente – illumina un paesaggio infernale, di brace.
Di quell’inferno Marcia Theophilo registra e riporta le seduzioni e gli inganni e ne affronta nella mimesi della presa diretta, con l’occhio dell’antropologo che si è fatto poeta, tutto il triste, tragico carico di mortalità: «Ecco apparire le ombre / la tempesta lambisce gli animali / uragano». L’arca biblica, strumento di salvezza e di protezione delle specie, è qui rovesciata di segno, è il mezzo che trasporta una modernità che uccide, una cultura dominata dall’interesse.  Le voci della vita si tramutano in urla, la distruzione domina e occupa per intero la visione dall’alto del poeta, nuovi e più drammatici animali meccanici riempiono lo sguardo su un paesaggio apocalittico. Con questo poema, scandito attraverso duecentocinquantanove tesissime lasse, ci è stato consegnato l’estremo epicedio di un mondo simbolico, icona stessa  sia di uno spazio vitale e necessario, sia del resistere della poesia.

Marcia Theophilo, Amazzonia. L’ultima Arca, prefazione di Walter Pedullà, Passigli 2013, e. 16,50.

Infinite colonne di formiche
colonne interminabili di auto

Uccelli volanti
macchine volanti

Foltissime foreste,
bruciano gli alberi
spogliati delle foglie

I vincitori
rimangono in possesso


Di un luogo devastato.

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