Il mondo poetico di Marcia
Theophilo è un cosmo di memorie. Il suo ambiente, la sua dimensione più
autentica è infatti quella della foresta amazzonica, ovvero di un habitat
perennemente assediato, messo in crisi, sfruttato e annientato. Ciò di cui il
poeta parla, canta, è destinato a rimanere sulla pagina nella forma di un
racconto mitico, che non appartiene più al presente o al futuro, e neppure al
passato più prossimo. Giustamente in questo nuovo libro, Amazzonia. L’ultima Arca, si parla di «archeologia amazzonica», di
una percezione della grande foresta condizionata dalla sua incessante
metamorfosi in negativo: delle immagini, dei riti, dei colori, dell’immensa
varietà di animali e di alberi si potrà parlare, d’ora in poi, come se si fosse
trattato di un sogno, di qualcosa che si potrà ricostruire solo attraverso le
congetture dello scavo. Nella specie di ciò che più caratterizza i nostri
desideri, il sogno appunto, Marcia Theophilo esprime invece la sua denuncia.
Non è la prima volta, nella
vicenda di quest’autrice: anzi, tutta la sua poesia è votata, da sempre, al
lamento civile per una felicità edenica, per un modello di cultura che non ha
più spazio nel secolo della globalizzazione. E quella cultura è tutt’uno con
l’ambiente in cui si è prodotta: nella lingua poetica di questi brevi canti,
infatti, non c’è soluzione di continuità tra ciò che appartiene al naturale e
ciò che appartiene all’umano. I suoni del portoghese brasiliano si fondono
inevitabilmente con quelli delle lingue indie, con il loro immenso repertorio
di dèi, di animali, di miti, e tutto ciò giunge all’orecchio europeo come un
mantra magico, come una splendida fusione di ciò che la storia ci riconsegna
attraverso i suoi strati. Anche il plurilinguismo, dunque, riconduce il lettore
verso l’archeologia, mentre i tetri cromatismi della deforestazione prendono il
posto dei mille verdi, e il sole – nuovamente testimone del disastro, com’è in
tutta la tradizione poetica dell’occidente – illumina un paesaggio infernale,
di brace.
Di quell’inferno Marcia Theophilo
registra e riporta le seduzioni e gli inganni e ne affronta nella mimesi della
presa diretta, con l’occhio dell’antropologo che si è fatto poeta, tutto il
triste, tragico carico di mortalità: «Ecco apparire le ombre / la tempesta
lambisce gli animali / uragano». L’arca biblica, strumento di salvezza e di
protezione delle specie, è qui rovesciata di segno, è il mezzo che trasporta
una modernità che uccide, una cultura dominata dall’interesse. Le voci della vita si tramutano in
urla, la distruzione domina e occupa per intero la visione dall’alto del poeta,
nuovi e più drammatici animali meccanici riempiono lo sguardo su un paesaggio
apocalittico. Con questo poema, scandito attraverso duecentocinquantanove
tesissime lasse, ci è stato consegnato l’estremo epicedio di un mondo
simbolico, icona stessa sia di uno
spazio vitale e necessario, sia del resistere della poesia.
Marcia Theophilo, Amazzonia. L’ultima
Arca, prefazione di Walter Pedullà, Passigli 2013, e. 16,50.
Infinite colonne di formiche
colonne interminabili di auto
Uccelli volanti
macchine volanti
Foltissime foreste,
bruciano gli alberi
spogliati delle foglie
I vincitori
rimangono in possesso
Di un luogo devastato.
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