lunedì 15 dicembre 2014

AILANTO n. 12 - Su Attilio Lolini




A soli due anni da Carte da sandwich, apparso nel 2013 da Einaudi, Attilio Lolini ci sorprende con una nuova raccolta di poesie, Bestiario gotico. La sorpresa è proprio in questa rapidità: Lolini appartiene a quella schiera nobilissima di autori appartati, un po’ schivi e un po’ caustici, ironici e sornioni, che dispensano con estrema saggezza – e con parsimonia l’arte della sprezzatura. Di se stesso ha sempre dato una definizione, quella di “vice-poeta”, decisamente in linea con il suo libro precedente: Carte da sandwich si rifaceva a quella serie di titoli all’apparenza sottotono, falsamente minimalistici (ricordo le Poesie per incartare l’insalata di Michele Serra, fra i tanti possibili, ma con un distinguo fondamentale: Serra è un umorista – un moralista? – che in quell’occasione si è prestato alla poesia, Lolini è invece un poeta con una spiccata cifra comica) attraverso cui la poesia ci lancia un indiscutibile segnale di presa di coscienza critica. Parlare del presente, di questo presente, è cosa davvero ardua per chi non scelga la strada del solipsismo lirico, della cronaca sentimentale. E parlare chiaro, in una lingua che non si arrocca dietro facili orpelli retorici o giochi manieristici, ma che riesce ancora a costruire un’immagine plausibile del mondo anche e soprattutto ricorrendo a un istituto desueto come quello della rima (rima che è sempre in Lolini il modo di rendere e chiudere un pensiero, accanto all’immagine) è impresa ancora più difficile.
Lolini però vince sempre la sua scommessa e anche questo Bestiario gotico ne è la felice controprova, anche rischiando qualche effetto straniante. Dagli scenari talvolta asfittici del verso contemporaneo il lettore ha l’impressione di calarsi improvvisamente in una lingua che mima quella di certa poesia fin-de-siècle, tra Otto e Novecento. C’è un certo tono scanzonato, un po’ da poeta maudit e un po’ da osservatore irridente: un Palazzeschi senza liberty, capitombolato all’indietro, un po’ Lucini e un po’ Lautréamont, o Corbière,  non senza qualche eco da Apollinaire; o forse precipitato in avanti, tra le stravolte capriole di una comica del cinema muto. Il tutto, come sapientemente diceva Orazio, per fare secco il futuro ed esorcizzare – come in altri luoghi recenti della poesia di Lolini – anche la vecchiaia, il decadimento fisico, infine la morte. Ma dietro questa traccia personale, la realtà preme da ogni parte, incombe nel pensiero del poeta e si traveste spesso da apologo, da favoletta allegorica (allegorici sono moli di questi titoli, che sembrano talvolta esprimere un enigma, un rebus), e induce l’autore a mimare un’andatura da filastrocca, portata fin quasi sulla soglia del nonsense. E proprio qui, sul limite estremo di questa soglia che Lolini si sforza di non varcare mai, accade che l’allegoria si disveli e che dietro questo bestiario così inquietante, fatto di peli e di grassezza, il passato divenga solo una «mesta fantasia» e il presente torni a parlare in tutta la sua sconcertante tristezza, mostrando il mondo per ciò che è: «vuoto e tondo».

Attilio Lolini, Bestiario gotico, L’Obliquo 2014, e. 11,00.

Destriero

Cantano le ore
con voce afona
e stonata

cantano alla luna
arrotolata

il pianeta s’è fatto trasparente
dentro non c’era niente

se ne va il pensiero
sopra un macilento destriero

porta da qualche parte
la nostra inutile arte.

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