Non
so quanto – e fino a che punto – la poesia di Francesco Iannone, vincitore del
premio «Subiaco Città del Libro», sia pienamente ascrivibile a una condizione
lirica. Possiamo estendere la denotazione di genere, e farvi rientrare tutto
quanto non sia visibilmente sperimentale, ovvero non scorra lungo quel versante
di ricerca “oggettiva” o più propriamente linguistica che torna a nutrire,
fuori tempo massimo, il più recente avanguardismo, ma anche in questo caso la
sua scrittura desta più di una perplessità, risultando davvero poco
riconducibile ad altre esperienze coeve, soprattutto spigolando all’interno
della sua generazione. A condurre il lettore verso regioni altre da quelle del
dispiegamento dell’io, del ripiegamento solipsistico, della facile elegia o del
diario intimo, contribuisce anzitutto una certa gamma lessicale, un linguaggio
che potremmo dire di frequenza, e che si presta alla creazione di immagini
originali, scarsamente o per nulla rilevabili nelle esperienze dei suoi
coetanei.
Parlo
del linguaggio della fiaba. Nella neppure troppo vasta «planimetria» dei versi
raccolti in Pietra lavica, apparso lo
scorso anno da Aragno, si dispiega un tessuto di particolare densità
metaforica. Ci imbattiamo in «bambini», in «nani», in «giganti», in una
«vecchia» che «semina il grano», in «uccelli» che beccano insistenti «il centro
/ di qualcosa». E intorno a queste immagini aleggiano continuamente il
«mistero» e il «miracolo». Ce n’è abbastanza, credo, per circoscrivere un territorio
espressivo compiuto e riconoscibile, che guarda al vasto retaggio
dell’infanzia, recuperando lacerti ancora in grado di costruire un possibile
discorso intorno al tema dominante dell’amore. Tema che appare e scompare, con
insolita energia carsica, e che si lascia declinare in modo obliquo, anche
quando viene chiamato espressamente sulla scena del testo, scontrandosi con il
suo antagonista, la «solitudine»: «Il mio bene / è un portone che geme / chiuso
a chiave / nel suo secolo di solitudine», scrive Iannone avviandosi verso la
fine del suo libro.
Il
verso precipita sulla pagina da una zona di inespressività, ammantandosi di un
certo ermetismo; e le metafore frequenti rinviano a una sicura scrittura di
tensione, di cui partecipano oggetti magici, caricati di ulteriori valori
simbolici. Divengono insomma emblemi, o enigmi, che delimitano un fraseggio
breve, oracolare. Nel repertorio delle immagini compaiono anche «Dio» e gli
«angeli», ma non sono quelli delle Scritture: somigliano invece a quelli dei proverbi,
che delle fiabe condividono la stessa marca antropologica. Iannone ha
trasfigurato una tematica tipicamente lirica come quella amorosa e l’ha portata
su un altro piano; ha lavorato su una simbolizzazione arcaica che rinvia alle
immagini della terra, perfino alla durezza e alla lucentezza di quanto ne
fuoriesce (di qui il titolo). Così la vita intera può mostrarsi come un «gesto
paziente / della maturazione» e un paesaggio di «neve» diventa il grande foglio
bianco su cui raccontare l’improvviso bagliore di una consapevolezza.
Francesco Iannone, Pietra lavica, postfazione di Giovanna Rosadini, Aragno 2016, e. 10.00
Ricevo
sul cranio questa pioggia
l’acqua
decide sentieri fra i miei capelli e le
ciglia
la
mia domanda è un albero altissimo
che
io vedo precisamente
sdraiato
nel suo sorso di cosa diffusa e calma.
Spezzi
il pane l’uomo dalle mani grosse
condivida
la sua fame con me.
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