Non sono riuscito a trovare una
sola informazione, in rete, a proposito di Andrea Orlandi. Il suo libro
d’esordio, L’allegria veloce, non
appare ancora nel sito del suo editore, Nemapress, una piccola realtà con
doppia sede tra la capitale e Alghero. Nonostante giungere a un primo libro,
per un giovane poeta, sia oggi certamente più facile rispetto a un ventennio
fa, è evidente che la visibilità è ancora tutta da conquistare. Eppure questo
libro è l’esito, felice, di un premio letterario, il «Premio internazionale di
Poesia 13» del Centro Poesia di Roma, che l’autore ha vinto nel 2014 proprio
con la silloge che oggi vede la luce.
Conosco Orlandi da alcuni anni,
da quando ha iniziato a frequentare la casa di Elio Pecora, ovvero di un autore
che non ha mai cessato di riversare sui più giovani la sua esperienza e i suoi
consigli. Di questo carattere testimonia il lavoro di direzione per la rivista
«Poeti e poesia», della cui redazione Orlandi è entrato a far parte già da
qualche numero. Pecora firma anche la prefazione al volumetto (e annette subito
l’«obliquità dello sguardo» e la «sospensione della voce» tra gli aspetti
primari della scrittura di Orlandi), siglando così autorevolmente quella che ci
auguriamo essere solo la prima tappa di un più lungo percorso.
Il titolo che Orlandi ha scelto è
molto intriso del Novecento migliore, e il lettore avvezzo a frequentare la
poesia moderna potrà trarne le numerose e mutevoli ascendenze; ma ciò che
colpisce è la sua natura così intimamente moderna. A seconda della prospettiva
da cui lo osserviamo, infatti, ci appare ora come una contraddizione, ora come
una fusione di percezioni diverse: un ossimoro o una sinestesia. Siamo, in ogni
caso, nei territori di una modernità che non si è mai del tutto spenta o pacata,
e che tende pericolosamente i suoi tentacoli (o le sue lusinghe, come una
temibile sirena) ben oltre i confini cronologici che forse con troppa fretta le
sono stati attribuiti. Orlandi ora sembra schivare, ora piuttosto assecondare
questi pericoli: una luce settecentesca, mozartiana, pervade i suoi versi e li
solleva dalle sterili secche del diarismo o del compiacimento elegiaco. Una
parvenza intermittente, una certezza numinosa si affacciano da queste pagine
come ospiti inquietanti e affascinanti: l’equilibrio è probabilmente
un’illusione, una meta fallace piuttosto che irraggiungibile. Eppure una gioia,
una gioia un po’ folle, alla Nietzsche, si lascia scorgere lungo tutto il
percorso di queste poesie, traducendosi in una inesausta ricerca e affermazione
di affettività. E tale è la «battaglia» che ostinatamente Orlandi conduce, fin
da bambino, avendo ben presto appreso a tendere il suo arco. E sappiamo quanto
questa tensione incarni un rigore assoluto, forse anacronistico, ma di cui il
poeta continua a nutrirsi come a una fonte necessaria. Oggi ne leggiamo le
prime frecce.
Andrea Orlandi, L’allegria veloce,
prefazione di Elio Pecora, Nemapress 2015, e. 10.00
Ho due dèi:
nessuna chiesa li professa,
così ogni giorno rischio di
essere solo
come non fossi nato.
Da una parte il dio del mondo,
dall’altra il dio di ciò che
manca.
All’uno e all’altro devoto
ti aspetto e preparo la cena.
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