Non
c’era bisogno che Maria Borio, nel licenziare con L’altro limite la sua prima prova organica, scrivesse nella nota
finale che queste scritture fanno parte di un più ampio progetto: l’idea della
costruzione si avverte fin dalle prime pagine, nel disegno del libro si intuiscono
le tracce di una sinopia, di un vasto affresco mobile, però, che somiglia più a
un work in progress. Del resto, ogni progetto che non risponda a tale
movimento, in letteratura è destinato a sconfessarsi. Così quella che potrebbe
sembrare una plaquette,
un’anticipazione di qualcosa che deve ancora compiersi, si mostra in realtà con
la tenuta di un libro, per quanto aperto, sospeso su un’incessante tensione
proiettiva. C’è, quasi sempre, uno «schermo», o un susseguirsi di scene come dietro
una quinta teatrale. L’autrice ci avverte che quello schermo è il «grande
vetro» dietro cui sintetizza la reificazione del «mondo digitale», e questa è
la vera novità: Maria Borio congeda il mondo della poesia analogica, per
restare nella metafora tecnologica, che appare come relegato dietro il velo di
quello schermo, e da lì proietta, o si lascia proiettare, le nuove immagini.
Insomma, la scrittura si è fatta digitale non perché è mutato il suo supporto,
ma perché quella è la sua nuova, ancora indefinibile sostanza.
(Non
so se “reificazione” sia il termine esatto. Presuppone ancora una visione dalla
parte di una realtà analogica, una capacità critica che invece il poeta affida
ora alla melmosità delle sue parole, o di cui, probabilmente, non vuole essere
più consapevole. Questa mi sembra la prima opera davvero digitale, in poesia,
affacciata su un presente impietoso).
Non
sorprende, allora, anche una certa metatestualità, un riflettere interno più
sui modi che sulle ragioni della poesia. Ad esempio la questione della forma,
che passa dall’ambito della realtà a quello della pagina, come problema che non
si risolve in un ritorno alla Gestalt,
perché digitale vuol dire anche virtuale, e ogni processo poietico finisce per
coincidere con se stesso, in una crescente autoreferenzialità. Si mostra per
ciò che è, un continuo decostruire e ricostruire il mondo, a patto di
riconoscere, appunto, che quella realtà non è fatta solo di esperienza; o
meglio, il concetto stesso di esperienza si è inevitabilmente corroso e
ampliato, e ciò che viene dallo «schermo» è altrettanto opprimente e concreto
di quanto è ancora possibile sperimentare attraverso gli altri sensi, che non
siano la vista e l’udito. Spesso in questi versi, che campiscono come cellule
isolate in un potente e inarrestabile fluire analogico, e che non riesco più a
chiamare poesie nel significato tradizionale, perché la costruzione nega la
forma, come a circuirla, a blandirla per poi disfarsene, non senza una certa
crudeltà, è proprio la scrittura, nel senso più ampio e moderno, a dominare.
Non potrebbe essere altrimenti, perché in questo primo libro, o tappa,
necessariamente doveva agire la foga della ricerca e della definizione. E con
il problema della forma doveva altrettanto porsi quello del soggetto, forse qui
inteso più come prospettiva, come luogo da cui osservare e raccontare,
piuttosto che come entità lirica. E dunque, come il primo uomo che si affacci
su questa landa ancora indecifrabile, il poeta va ri-nominando le «cose». Maria
sa bene che in poesia questo termine non significa nulla, che spesso è un
espediente, avrebbe detto Verlaine, di bassa cucina. Ma proprio esasperandolo
ne fa il veicolo di una semantica nuova, di una lingua che si sta plasmando, ed
è ancora di là da venire.
Maria Borio, L’altro limite, LietoColle 2017, e. 13.
Sembra
quasi che tu non abbia vissuto
tutti
gli anni sconnessi
dopo
la rivoluzione, o l’ipocrisia
ingenua
di invecchiare
- forse
questa gabbia,
la
sicurezza, o un pezzo
di
vita come carne comprata.
Se sapessi
quale filo invisibile,
quale
corda tesa e bugiarda…
anch’io
sotto l’alluvione
sotto
al peso incalcolabile?
anch’io
vorrei smettere di dirmi
io.
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