L’ultima
raccolta completa delle poesie di Milo De Angelis risale al 2008, per le cure
di Eraldo Affinati. Dopo quella data si sono aggiunte altre due tappe
importanti nel percorso di quest’autore, Quell’andarsene
nel buio dei cortili (2010) e Incontri
e agguati (2015). Era dunque necessario un aggiornamento dell’intero corpus, operazione a cui Mondadori ha
provveduto con un volume, Tutte le poesie
1969-2015, che si avvale della postfazione e della bibliografia di Stefano
Verdino. Il libro inaugura la nuova serie con cui la collana principe della
poesia contemporanea, «Lo Specchio», riprende il suo percorso dopo un restyling
non solo grafico, ma anche progettuale.
Non
è certo semplice racchiudere in poche note il racconto di oltre quattrocento
pagine che contengono una vita intera di poesia, e ancor meno lo è quando il
poeta in questione è uno dei più frequentati, dai lettori e dalla critica, ma
anche uno dei più complessi del panorama lirico tra i due secoli. Ad aiutarci
nell’attraversamento concorrono senz’altro le osservazioni della postfazione, e
ancor più la densa nota d’autore che chiude la lunga sequenza delle poesie. La
vera novità del libro, rispetto alla confezione editoriale degli «Oscar» di
poesia, ormai dismessi, è proprio questa: affidare alla diretta voce del poeta
quella che non vuole soltanto risuonare come una dichiarazione di poetica, ma
anche come una descrizione di lavoro, come un inesausto work-in-progress aperto
al lettore. Un’autentica narrazione non solo dell’insorgere di una vocazione,
ma anche di come questa energia irrinunciabile e soverchiante sia stata poi
tradotta nei versi qui riuniti, a cui si aggiungono (altra importante novità)
alcune poesie “giovanili”, conservate negli anni da un antico maestro e sodale
come Angelo Lumelli. La parte delle poesie, così, dialoga in modo più fitto e
concreto con il racconto della propria scrittura, a partire dalla sua scoperta
e dalle prime prove compiute. Da quelle pagine fondamentali ci vengono incontro
alcune categorie, alcune immagini: la «permanenza», lo «svelamento», il
«ritorno», il «silenzio», il «tempo». Sono i grandi concetti, ovvero le
linee-guida, che possiamo ritrovare in alcuni antecedenti novecenteschi che De
Angelis ha eletto tra i suoi interlocutori previlegiati (penso, sopra tutti, a
Celan, a Rilke, a Marina Cvetaeva), ma che in realtà attraversano tutta
l’ossatura della tradizione poetica occidentale, dai classici greci e latini,
verso i quali questo autore non ha mai cessato di dimostrare un’attenzione e forse
una predilezione che in altri poeti appare più fievole.
Nel
cercare di riprodurre i propri fantasmi e le proprie ossessioni sulla carta, De
Angelis ammette fin da subito una sorta non di reticenza ma di impotenza.
Parlare della poesia è qualcosa che «mi atterrisce e mi atterra», dichiara, per
poi spostare il paradosso sulla natura
stessa dell’atto poietico: ambire alla «permanenza» con gli strumenti più esili
e indifesi che il presente possa metterci a disposizione. Ma il linguaggio dei
poeti si sostanzia di questa contraddizione e dunque di questo miracolo: il suo
effetto più pregnante è quello del ri-conoscimento, sulla linea ideale che
congiunge Leopardi a Pavese, di un «mondo precedente», verso cui attua, nella
spinta mitografica della parola, un possibile «ritorno». Il «porto sepolto» di
Ungaretti ne diventa il simbolo più vicino ed efficace. Prima che tutto ciò
possa compiersi, il poeta De Angelis ingaggia una lotta con il «silenzio», per
sottrarvi quei «brandelli» di un racconto possibile su cui allestire le sue
ardue impalcature liriche. È con questa energia implosiva che la sua scrittura
da sempre si misura affinché attraverso la porta della Poesia possa infine mostrarsi
«la vita autentica».
Milo De Angelis, Tutte le poesie 1969-2015, Postfazione e Nota biobibliografica di
Stefano Verdino, Mondadori 2017, e. 22.
Il cerchio
Un
modo di violare la grazia
di
questi abiti, tra le danze e il vino
e i
volti fini:
non
c’è. La nebbia entra dalla finestra
morbida,
avvolge
ogni
crudeltà, vellutandola. È un inverno già caldo
in
cui ciò che manca annuncia il ritorno
e là
dentro l’agonia degli animali compone un ordine
musicale.
Anche
i buchi di morfina
nascondono
il sangue.
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