Ha
certamente ragione – e buon gioco – Giulio Mozzi, nel presentare Noemi De Lisi
come una narratrice. Ma di che specie? Per quanto questa giovane autrice abbia
frequentato la forma più canonica del narrare, ovvero quella del racconto, non
è a questo che il prefatore rinvia chi si accinga a sfogliare le pagine de La stanza vuota: perché questo è, a
tutti gli effetti, un poemetto, dalla struttura particolare, intrinsecamente
complessa, ma pur sempre un poemetto, scandito in tre sezioni che alludono a
una decisa proiettività del soggetto lirico. Perché è questa, la prima sorpresa
a cui De Lisi costringe il suo lettore: la narratrice si trasforma in un poeta
lirico, non certo per la musicalità del verso, ma proprio per la centralità che
l’io vi occupa. A dispetto dell’ondata neometrica che ha spesso colpito, con
esiti discontinui, la poesia italiana dell’ultimo ventennio, De Lisi compie una
scelta più autonoma e coraggiosa, in linea forse con certe eversioni che
ricordano, pur da lontano, le ardite sperimentazioni di Amelia Rosselli: dietro
i cui versi ampi stava una precisa scelta musicale, e un altrettanto precisa
consapevolezza forgiata su lunghi studi dodecafonici.
A
chi questi versi possano sembrare eccessivamente prosastici, raccomanderei,
come si preoccupa di fare anche Giulio Mozzi, una lettura ad alta voce. Non
tarderemo a scoprire frammenti di una prosodia più segreta, e dunque, se
proprio vogliamo, l’ossatura della prosa ritmica. Il confine tra verso
tradizionale e poemetto in prosa si fa spesso labile, volutamente labile,
proprio come il caleidoscopio delle immagini che ruotano intorno a quella
primaria che intitola il libro, la «stanza vuota». Un’immagine, questa, che ha
una sua indubbia tradizione, dal luogo dell’isolamento cercato, dell’otium letterario, fino a quella, più
moderna, dove Virginia Woolf fonde scrittura e ricerca di sé. Accanto a questo
filone, la «stanza» di De Lisi presenta altrettanti connotati psicoanalitici,
perché a guidare la scansione del poemetto sembra essere proprio la triade
freudiana di Io, Es e SuperIo. I personaggi di questo racconto senza trama,
dietro cui si avverte di continuo l’incombere di un dramma già avvenuto, hanno
tratti indefiniti se non attraverso i loro ruoli. C’è un narratore, un soggetto
maschile, che osserva e ricorda con il minimo scarto che possa consentire una
possibile oggettivazione, e dunque un racconto: è quanto di più si avvicina al
SuperIo. E c’è il personaggio, una sorta di figlio pirandelliano, colto nel suo
rapporto con la madre (verrebbe da scrivere la Madre, perché è lei il perno
della sua identità), poi con il solo personaggio ad avere un nome, Anna
(l’eros, la complicità?), infine con il padre. L’Io si afferma proprio nel
confronto serrato con la figura materna; l’Es in quello con l’esterno,
rappresentato da Anna; il SuperIo riassume e narra le fluttuazioni, le
apparizioni, gli scambi, le ambigue sovrapposizioni di cui tutta questa scena
teatrale si nutre. Ne viene un libro senz’altro originale, nel panorama attuale,
non solo per la costruzione già matura, ma soprattutto per l’erosione delle
forme consuete, per la ricerca borderline. Casa, città, stanza divengono un’unica
dimensione apocalittica, l’orlo di un disastro, di una tragedia portata come
una storia ineffabile dentro la carne e dentro i nomi non detti.
Noemi De Lisi, La stanza vuota, prefazione di Giulio Mozzi, Ladolfi Editore, 2017,
e. 10.
Da
ogni profilo somigliavo a mia madre,
gli
altri me lo ripetevano come un insulto:
“Sei
troppo magro per essere un maschio!”
Con
lei scambiavo tutto: le lenzuola, le posate,
eravamo
gli stessi e a volte mi spaventavo
quando
un sorriso mi cambiava la faccia.
Solo
la voce era diversa, così la facevo più sottile,
spesso
mi concentravo dopo un colpo di tosse,
lei
si innervosiva: “Quando la finirai con questo gioco?”
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