giovedì 13 luglio 2017

Baldo Meo, Conservazione della specie

È appena stato pubblicato da Stampa2009, nella collana diretta da Maurizio Cucchi, il nuovo libro di Baldo Meo, Conservazione della specie. Posto qui la mia postfazione.



A dispetto del titolo darwiniano, che vorrebbe rinviare a un vastissimo scenario epocale, di ere e infinite durate, di lenti processi metamorfici, questo libro di Baldo Meo si apre con una citazione da Jodorowskj, che si assesta intorno a un’idea di conoscenza «piccola», legata alla capacità (all’arte?) di «seminare». Possiamo leggerla come una variante dell’adagio con cui Voltaire - che osservava il mondo della natura e degli animali sotto una lente democratica, di uguaglianza e parità con lo stato umano - ci invitava a cultiver notre jardin, ovvero a un lavoro su noi stessi, intorno a noi stessi, nel «piccolo» recinto delle nostre esperienze e delle nostre relazioni.
Come sia strutturato, e descritto, questo recinto, ci viene subito detto. La prima poesia, posta a viatico, è improntata alla disattesa. Nei «lunghi anni», metaforici (e ironici) della sua evoluzione, l’esemplare che ha preso parola si racconta alla finestra, in un abbraccio visivo che comprende (ancora metaforicamente) l’alto e il basso, la «strada» che è il grande circo delle mutazioni e il «cielo» dei destini. Ma «quel che è», come recitava un titolo di Erich Fried, ovvero quanto accade e resta, è solo il predisporsi al «clima», l’unica certezza che sembra appartenere al soggetto.
Sul basso, ancora più basso, si concentra la prima delle cinque sezioni in cui è ripartito questo volume, Il legno del pavimento. Una chiara topografia è scandita nel procedere di queste suite: se le due a seguire parlano nuovamente nello spazio del quotidiano, nella sua dimensione più consueta, la quarta, Distanze, torna a proiettare lo sguardo fuori della finestra, verso lontananze celesti o sentimentali (non fa differenza se il cielo è da sempre l’emblema del desiderio e dell’assenza e l’azzurro, per i moderni, è il colore della malinconia). Si richiamano così echi trobadorici, quell’amor de lonh che è uno dei grandi nutrimenti della lirica occidentale e, certamente, una delle condizioni del suo insistere sulle tematiche dell’innamoramento. L’ultima sezione, Tutto sommato, contiene etimologicamente la summa di questo percorso tra assenza e presenza («assenza più assurda presenza» diceva un antico verso di Bertolucci) e non a caso la poesia conclusiva è quella che dà il titolo all’intera raccolta.
Se queste coordinate sono esatte, Baldo Meo ha inteso disegnare una mappa precisa lungo cui condurre il lettore, in un percorso che vorrebbe essere segnato dall’empatia e dalla partecipazione, nella ripresa sostanziale, e tematicamente convincente, di quanto è indicato nel testo d’apertura: dal basso verso l’alto, in una visuale onnicomprensiva del proprio esser-ci, anche e soprattutto in relazione all’altro-da-sé. Perché l’esemplare, su questa terra e sotto la volta del firmamento non è solo, ma è collocato naturalmente in un circuito relazionale fatto anche di sfide e di distanze, di incontri e di separazioni. Viene allora da chiedersi se sia un’intera specie a volersi conservare, resistendo alle dinamiche del tempo, oppure, al suo interno, il singolo individuo, costretto a misurarsi in un confronto incessante con epifenomeni che, sulla durata, incidono forse più di quel che sembra significativo nell’immediato. Il poeta non vuole dare risposte alle lucidissime domande che sottintende e che ci consegna, mantenendo così vivo e acceso il senso di quel confronto: talmente serrato che l’io vorrebbe infine ottundersi, confondersi con l’universo della physis, perdere i connotati del pensiero, vivendo neppure per istinto (dal suo breve elenco di similitudini è bandito il regno animale) ma affidandosi per intero alle leggi della natura.
Basta dunque un’inclinazione della luce esterna, un raggio di sole sul pavimento ed ecco affacciarsi fin da qui la fisiologia della luce di Hopper, al quale, più avanti, è esplicitamente dedicata Le case vicino alla ferrovia. LO sguardo alle venature del legno si accompagna all’invocazione di una metamorfosi mancata, che solo il lare paterno, ormai cenere sparsa, può subire. Avvertiamo un’altra eco, quel confondersi, fuori della Storia e del suo insopportabile teatro, come «una docile fibra» in un universo vegetale, ancora capace di linfe vitali. Così scriveva Ungaretti in trincea, ma qui, nell’apparente serenità dell’osservazione, si combatte comunque un’altra guerra, quella per la sopravvivenza e la «conservazione».
Dei due importanti sensi che caratterizzano la percettività dei moderni, la vista e l’udito, è quest’ultimo a risultare il grande assente nei versi di Meo, dominati piuttosto dall’osservazione della luce e da un silenzio davvero insolito nell’estremo volgersi del millennio, nella sua confusa e crudele urbanità. Ed è proprio questo silenzio a rendere più chiaro lo svolgersi dell’osservazione, fino a farla divenire contemplazione, ovvero ritorno del pensiero sulla vista, accadere simultaneo di due sensazioni che vanno precisandosi in un cortocircuito analitico, in una discesa verso i propri inferi. Fermarsi in una «mente occasionale», afferrare l’istante in cui la realtà, rifuggendo da ogni epifania, si lascia cogliere per «quel che è», per tornare a Fried, «tranquillamente», senza più sbalzi e sobbalzi, è ancora un «naufragare dolce» o quella tranquillità allude invece a una condizione di resa e di disincanto?
La citazione leopardiana («essere seduto / accanto al silenzio») è evidentissima, ma quello stato di «quiete» non è poi così pacifico. Lo attraversano, ancora sotto metafora, la «pioggia» e il «sole» della vita, l’altalena di morte e resurrezione a cui l’io è costretto «senza ragione». A naufragare, ancora una volta, non è il soggetto ma il suo pensiero, con buona pace di Cartesio: un io scomposto tra pulsioni interne e principi di realtà. Lo scenario di questo naufragio è quello di una «Damasco inferiore», sia nel senso di una privatissima catabasi, sia in quello di esposizione al proprio inferno. Allora anche la vista allora vacilla, se la mente stessa è ridotta a buio, se la contemplazione è impedita e resta solo il silenzio assordante di un incubo; come Saulo, il poeta rischia la cecità, ma è anche vero che quello è, con ogni probabilità, il suo status più autentico, quello che consente l’avvio di un immaginare in grado di proiettarlo oltre la dialettica di assenza e presenza.
Proprio per questo, perché la specie si conservi (e con essa quell’io-moltitudine chiamato ogni giorno a lavorare su se stesso) il soggetto deve «comporre armonie», deve rintracciare un possibile «ordine benigno». Si avverte ancora un residuo d’ironia, in questo, un tentativo estremo di distacco (tale è l’ironia) e di libertà, ma la via d’uscita è sempre e soltanto in «quel che è»: «al sole / ogni cosa è buona», scrive Meo, alludendo già a quella «salvezza omeopatica» per cui il negativo combatte il negativo e quel che appare «minuto» ritorna, «tutto sommato», nel pieno delle sue potenzialità semantiche e vitali.
Eppure il silenzio persiste. L’ultimo, tra i rari animali presenti in queste poesie, è la lucertola che compare sul finale, una creatura senza voce. Una favoletta di Gadda racconta l’incontro, sulle scale di un museo, tra una lucertola e un dinosauro, e questi si rivolge a lei con ironia devastante: «Oggi a me, domani a te». Lei, dalla sua «piccola» dimensione, non risponde. La «conservazione della specie» passa anche attraverso la riduzione, che è sempre, anzitutto, un effetto della lingua: il silenzio.

Nessun commento:

Posta un commento