Ciò
che a prima vista appare come una semplice raccolta di ricordi, una serie di
rievocazioni, non tarda a rivelarsi come un oggetto complesso e difficile. Più
ci si addentra nelle pagine di questo Libro
degli amici, edito da Neri Pozza, più si colgono il disegno, la struttura
profonda che lo animano. Il genere a cui appartiene, quello della
memorialistica, lo comprende fino a un certo punto; non si tratta, in ogni
caso, di un genere principe delle nostre lettere, anche se vanta esempi più che
illustri, soprattutto – questo è interessante – nel secolo dei lumi. Penso a
Goldoni, a Vico, a Casanova, ad Alfieri, solo per citarne qualcuno tra i più
evidenti.
Dunque,
nella nostra tradizione dev’esserci stato – e forse c’è ancora - un legame tra ricordo e ragione, anche se
l’autobiografia, o la biografia di per sé, spesso simulano o dissimulano una
certa finzionalità, ovvero una propensione al racconto. Del resto, come ci
insegna Leopardi, fingere, che deriva
da fictio, vuol dire mettere in moto
un racconto del pensiero, nel
pensiero: io nel pensier mi fingo.
Sono
questioni che ci introducono al primo dei quattro termini che ci vengono
incontro dal Libro degli amici e che
potremmo così individuare: ritratto, tempo, memoria, cornice.
Partiamo dal primo. Quella del ritratto è una lunga storia che tutti
conosciamo, tra arte e letteratura, ma quello su cui non si riflette mai
abbastanza, anche di fronte al più realistico dei ritratti o a una fotografia,
è ciò che l’autore intende illuminare attraverso il suo dosaggio della luce. Un
ritratto è sempre una prospettiva, soprattutto se tra il ritrattista e il suo
soggetto s’insinua un latro concetto cardine, su cui, invece, da sempre si è
riflettuto: quel gemello dell’amore che risponde all’amicizia. Questo è
davvero, in ogni senso possibile, Il
libro degli amici. Lo si avverte dalla confidenza, che qui non è questione
di tono, quanto di modi della descrizione. C’è, dietro questi ritratti, un
collante comune, una dimensione sola e unica: Roma. Leopardi annotava nel suo
zibaldone che «In un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v’è. Amicizia non può essere che in città grandi,
o pur fra persone lontane» (8 luglio 1829). E in precedenza aveva sottolineato
che l’amicizia è «fra uguali» (3 novembre 1821), e che la differenza di età e
di esperienza non sono elementi a sfavore, al contrario: «È oggidì meno
verisimile l’amicizia fra due giovani che fra un giovane e un uomo di
sentimento già disingannato del mondo e disperato della sua propria felicità»
(20 gennaio 1820). La ritrattistica di Pecora si muove esattamente su queste
linee, e nella maggior parte dei ritratti questa è stata la realtà delle cose.
Dei dieci ritratti maggiori di questo libro, solo i rapporti con Dario Bellezza
e con Amelia Rosselli possono considerarsi tra coetanei, e quello con Bellezza
è stato tutt’altro che facile.
Uno
studioso che scriva di un autore mirerà, per quanto possibile, al massimo di
obiettività, ma per un autore che parli di un altro autore il tasso di
soggettività è sempre più alto. Si finisce inevitabilmente per dire qualcosa di
sé. «Il ritratto appartiene al ritrattista», avverte Pecora fin da subito, il
che vuol dire che i suoi sono anche degli autoritratti per interposta persona,
delle proiezioni, delle rifrazioni, da parte di chi, nell’amicizia, scorge
soprattutto l’amore: «Spesso si è trattato di un vero innamoramento. [… ] Chiamo
amici quelli che nomino ed evoco in queste pagine. Per lunghi o per brevi
periodi di tempo ci siamo parlati, accompagnati, cercati, trovati».
Tempo. È un tempo lineare, biblico, quello di
Pecora. Sembrerebbe non tornare più indietro: questa società culturale qui
riunita, tutta insieme, sembra muoversi come dietro un velo. Sembra,
appunto. Pecora sa che tra il tempo
lineare e quello ciclico della natura e del mito sta un altro tempo: l’infinito
che torna nel finito. Un evento, nella nostra vita votata alla finitudine, può
ripresentarsi infinite volte. È l’ipotesi che Nietzsche, autore carissimo a
Pecora, definiva come l’«eterno ritorno dell’uguale». Se provo a spostare la
metafora dall’ambito filosofico a quello letterario, chiedendo aiuto a un altro
autore caro a Pecora, ma distante anni luce da lui, questo tempo della
rievocazione si chiarisce ulteriormente. In chiusura dei suoi suggestivi,
straordinari saggi su Dante, Borges, richiamando il canto di Ugolino e il
celebre verso «poscia, più che il dolor, poté il digiuno» (su cui ancora dopo
sette secoli si affannano gli esegeti), afferma che l’ambiguità di quel verso
(Ugolino ha mangiato o no i suoi figli?) è in verità un falso problema, e che
proprio nella sospensione di quell’ambiguità Dante ha voluto consegnarci la
figura del conte della Gherardesca; il quale, a ogni nostra lettura, torna
sulla scena a recitare per noi la propria tragedia. Come Paolo e Francesca,
come gli altri personaggi: riapriamo le loro pagine, ed essi si rianimano per
noi.
Dunque ciò
che caratterizza un testo letterario da tutti gli altri sarebbe proprio ciò che
i teorici chiamano il suo ri-uso; e il ri-uso rende il tempo finalmente
reversibile, il tempo della cosiddetta realtà e quello percepito; il tempo
dell’esperienza e il tempo interiore di Agostino e poi di Petrarca. Allora si
spiega che l’attenzione del ritrattista non colga tanto gli aspetti fisici, a
cui Pecora è davvero poco o per nulla interessato (tranne di fronte alla
bellezza conclamata di Anna Amati e di Elsa de’ Giorgi); lo appassionano di più
i caratteri, gli umori, le psicologie. E, naturalmente, gli ambienti. Tutti i
grandi ritratti si muovono “in situazione”, non ci sono mai primi piani, ma
scene che si svolgono all’aperto o nel chiuso domestico.
Memoria. È finanche ovvio scomodare Proust.
Perché Il libro degli amici è anche
una «ricerca del tempo perduto». Non del tempo perso, che non si rende mai
reversibile, ma di quello trascorso nell’affetto: questo ritorna sempre, in
queste pagine. Perché la memoria è un potentissimo filtro affettivo. Anche
quando siamo noi a provocarla, c’è sempre una forte componente involontaria. La
memoria pesca dove vuole lei, basta inzuppare una madeleine ed ecco che la ricerca del tempo perduto prende avvio e
la nostra vita – o meglio, il ricordo della nostra vita – prende forma nella
nostra mente e si sostituisce al presente, lo sospende.
Siamo
davvero noi i registi di tutto questo, come vorrebbe Pecora? Sì, ma fino a un
certo punto. Forse, più che i registi, siamo i provocatori, o i provocati.
Alcuni di questi ritratti nascono da occasioni, e l’occasione è, da sempre, un
formidabile vettore espressivo, per Pecora. Lo ha ricordato di recente Roberto
Galaverni sul «Corriere della sera», citando quest’autore come «capace di
notevoli poesie d’occasione». L’occasione provoca la memoria. Accade per
Wilcock, il cui ritratto si lega a un lontano convegno di studi; per Francesca
Sanvitale, il cui ritratto fu scritto per la prestigiosa rivista «Belfagor»,
come un precedente ritratto di Penna.
Pecora
torna su quelle pagine, le riscrive, le aggiorna. Le consegna all’unità del
libro. Così veniamo all’ultimo termine, cornice.
La
struttura del Libro degli amici è chiara.
Una breve premessa, in corsivo, che dà voce all’autore piuttosto che al
narratore; poi un ampio capitolo introduttivo, dove scorrono molti personaggi
tra arte, musica, letteratura, scienza. Seguono i dieci ritratti maggiori.
Ancora una brevissima apparizione dell’autore in corsivo, quindi un altro ampio
capitolo conclusivo, assai disincantato. È una vera costruzione a cornice, che
incastona le dieci narrazioni più ampie in un ambiente ancora più ampio. Solo
che, al contrario di quanto accade nella nostra tradizione di cornici (pensiamo
a Boccaccio o a Basile), abbiamo qui un unico narratore interno, un po’ come la
Sherazade delle Mille e una notte.
Eppure, come i narratori del Decameron,
Pecora ha scritto da una condizione di isolamento, quasi forzato da una
malattia di stagione. Gli ingredienti della struttura a cornice sembrano
esserci tutti e come in ogni opera incorniciata, a chiusura del libro si
avverte l’esigenza di proseguire: i racconti sono finiti ma se ne vorrebbero
ancora, tanti altri ancora. Perché di quel mondo, spazzato via dalla caducità
come dalla rivoluzione digitale, che ha radicalmente mutato anche la natura dei
nostri rapporti e la nostra capacità di averne e soprattutto di mantenerne,
sentiamo in chi è rimasto sospeso tra vecchio e nuovo una potente malinconia.
Pur avvertendone i limiti, che solo un uguale poteva
puntualmente registrare sottraendo questi personaggi al loro stesso mito, per
farne di nuovo umani in carne e ossa; pur avvertendo questi limiti, quel mondo
si attesta come qualcosa di unico, che solo la forza della letteratura torna
oggi a restituirci attraverso le parole di Elio Pecora. Allora ricordare non è
più soltanto una necessità,ma un imperativo, in «troppi anni senza lasciare
tracce», leggiamo, in chiusura, tra amarezza e gratitudine.
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