martedì 4 novembre 2014

AILANTO n. 10 - Su Alessio Brandolini



Anche nel nuovo libro di Alessio Brandolini, Nello sguardo del lupo, ritrovo tracce evidentissime di un curioso animale letterario, di una creatura fantastica, del tutto inesistente eppure più vera di ogni possibile visione. Parlo di quella sorta di mostro uscito dalla fantasia di Borges, che dichiarava, a sua volta, di averlo ereditato da una leggenda di boscaioli del Wisconsin, abituati alle lunghe solitudini tra i boschi: lo hide-behind. Sua caratteristica è quella di trovarsi sempre alle nostre spalle e di restare perennemente invisibile. Avvertiamo la sua presenza, ma non riusciamo a scorgerlo; appena proviamo a voltarci, lui è sempre più svelto di noi. Il lupo che si muove negli interstizi di queste poesie, che ne popola i versi e ne scandisce il movimento guardingo, ha davvero molto dello hide-behind, se questo, come credo, è la metafora più riuscita di tutto quel grumo di ansie, ossessioni, paure con cui quotidianamente siamo chiamati a confrontarci. Ma, come il suo stesso nome suggerisce, lo hide-behind vive nascosto dietro di noi, ci segue come un’ombra, ma non ci è concesso fronteggiarlo; Brandolini sembra invece essere riuscito lì dove nessuno aveva osato spingersi, deve aver guadagnato in velocità al punto da ritrovarsi davanti al lupo, e di poterne sostenere lo sguardo.
Il problema sorge quando, con assoluta consapevolezza, il poeta intende quello sguardo come il proprio. Anzi, quello sguardo è il suo sguardo, l’«occhio-proiettile» che non sa cessare di correre attraverso indefinite zone oscure, ombrose, dove la città così tanto evocata, fino all’autocitazione (il «Tevere in fiamme», o più indietro «l’alba  a Piazza Navona») indietreggia fino a un paesaggio di muffa. Non so quanto questi ritorni a distanza congiurino alla creazione di un insieme, di un sistema poetico; sarei più tentato di leggerli come delle risalite dalle profondità del tempo e dell’esperienza, che qui vengono a corroborare un impianto decisamente solipsistico. C’è Roma, in tutta la sua maestà: i luoghi sono riconoscibilissimi, dal Gianicolo all’Isola Tiberina, da Fontana di Trevi a corso Rinascimento, dove svetta la cupola borrominiana di Sant’Ivo alla Sapienza, fino alle rovine di Tuscolo; e questa imponente geografia urbana, così monumentale, diviene piuttosto lo scenario di una mancanza, declinata come incontro, come amore, come semplice appuntamento, ma sempre in negativo. Nel pieno della città barocca l’horror vacui si tradisce e lascia scorgere un punto da dove il soggetto può infine contemplare se stesso in tutte le sue contraddittorie manifestazioni, nelle sue aspirazioni disilluse, nel suo non riuscire a trattenere, sotto il «diluvio delle parole», atti e gesti con cui ricostruire un’identità possibile, mentre la realtà si riduce a un susseguirsi di grotteschi.
Il ritmo, specie nelle sequenze in prosa, sembrerebbe suggerire una pulsione vagamente automatique, che talora fa ricordare certe intemperanze di Amelia Rosselli; eppure si assiste a un collage sapiente, al disfarsi, sulla pagina, di un’energia associativa che necessita non solo di recuperare le immagini del passato come metafore ossessive, ma di reintegrarle in una ripetizione di luoghi e di eventi: proprio come se, alla fine, il proiettile avesse necessariamente mancato il suo bersaglio, e l’io si fosse definitivamente riconosciuto nel fuori-centro (anamorfico, barocco) da cui osserva. Da lì, le impronte del lupo, del poeta che si è fatto lupo, ci invitano a seguire un sentiero di cupo ripiegamento; come in una vasta tradizione, l’io-barca (l’altro vettore metaforico del libro) rischia di restare imprigionato nella tempesta, o di giungere in un porto che crolla comunque.

Alessio Brandolini, Nello sguardo del lupo, La Vita Felice, 2014, e. 13,00.


Sfiorito come non mai perché stufo
delle oscillazioni, nell’arido terreno
da mesi senz’acqua, bloccato
dal groviglio che lievita nel cuore.
Una vita oscura e gelida: un seme?

Per trovare la luce ti cali nel pozzo.

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