sabato 8 novembre 2014

Qualche appunto su Malaspina di Maurizio Cucchi




All’avvio della Commedia, nel I canto, Dante ci dice che al levarsi del sole si attenua la paura che gli è durata tutta la notte «nel lago del cor». A distanza di secoli, Montale riprende quest’immagine e fa del cuore di Dora Markus, così profondamente inciso dalla Storia, un «lago d’indifferenza». Non so quanto coscientemente l’autore abbia inteso riprendere quell’immagine, ma ho avuto la precisa sensazione che anche per l’ultimo libro di Cucchi sia accaduto qualcosa di analogo: Malaspina, il piccolo lago che dà il titolo al volume, è il lago del cuore, o meglio, è il nome con cui il poeta riconosce, identifica il suo cuore-lago.
La poesia moderna ci ha abituato all’uso frequente di toponimi, di nomi geografici, perfino di semplici strade (chi non ricorda la via Scarlatti di Sereni?), che acquistano uno straordinario potere di evocazione. Così anche un piccolo lago può diventare il nome di una potente metafora, che la tradizione non è ancora riuscita a usurare. Immaginiamo questo lago calmo in superficie, ma profondo, icona di quelle sospensioni felici come di quelle adesioni improvvise che scandiscono il ritmo autentico, percettivo e sentimentale, di tutto questo libro.
Una doppia dimensione, orizzontale e verticale, accoglie queste poesie: la prima contiene luoghi, eventi, persone; la seconda, invece, si riempie di memorie e reinvenzioni, così strettamente intrecciate tra loro nella dinamica compattezza della metafora. Ovvero quella di un io che si espande e si misura con le sponde porose del proprio mondo fenomenico e che insieme si cala, discende dentro se stesso, fino a imbattersi nella propria natura più misteriosa e contraddittoria.

Non sorprende, allora, che anche il berretto a sonagli, così novecentesco, così pirandelliano, sia rievocato in questi versi non tanto per indicare la follia, vera o presunta, ma la scoperta ben più radicale di un’alterità dell’io, della sua resa alla molteplicità delle cose, ai loro intrecci più sconosciuti. Gli emblemi della discesa (l’ennesima descensus ad inferos della modernità lirica) ci sono davvero tutti: il poeta è una specie di archeologo che s’avventura nella cantina della propria memoria. E qui può ritrovare, come emerse dal fondo melmoso di un lago, ombre riconosciute o fittizie, rifrazioni e proiezioni che gli si fanno incontro traversando quell’inusitato spazio metaforico, fattosi comune, condiviso con il lettore: quello spazio dove le verità parlano la lingua di una commedia e la commedia appare infine vera.


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