martedì 26 agosto 2014

Comisso e Penna






Leggo e rileggo Comisso. Ho portato con me il “meridiano” di opere scelte, curato da Rolando Damiani, che ha scritto una superba prefazione, e da Nico Naldini, che di Comisso è stato amico, editore, biografo. È una compagnia molto adatta per questi pomeriggi estivi, già attraversati da un’aria che anticipa settembre. Dopo l’afa e la polvere, il paesaggio ritrova una freschezza che trasuda anche da queste pagine. Sembra che non ci sia soluzione di continuità tra quello che ci trovo descritto, il paesaggio della campagna veneta di un secolo fa, le avventure sulle sponde dell’Adriatico e il verde che mi passa dalla finestra. L’italiano di Comisso scorre con la leggerezza elegante di uno stile pulito, asciutto e necessario; pochi tratti essenziali per un personaggio, che spesso occupa righe minime; rapidi affreschi per i panorami. La velocità è tutto, per questo scrittore che ha saputo farsi, molto più modernamente di altri, reporter di se stesso, filtrando il meglio che poteva venirgli dalla tradizione. Aveva ragione Sandro Penna a riconoscerlo come il suo vero maestro: questi racconti sono pervasi da una sensualità avvincente, che rivela un rapporto simpatetico con la realtà, con il mondo osservato, con gli incontri e le esperienze vissute. Ma Penna guarda anche dietro le spalle di Comisso, e come D’Annunzio, risolve quella simpatia in una relazione trasognata. E non si limita a questo: guarda ancora più indietro, fino a ridiventare arcaico, a ricreare la purezza di un primitivo che osserva il mondo senza studiarlo, ma con l’infinita sorpresa di ritrovarcisi. Per questa via, diventa universale. Comisso invece è sempre lì, concreto, contingente, avvinto a ciò che narra come un innamorato consapevole dei limiti e della fine di ogni amore, e per questo niente affatto turbato dalla perdita. I suoi finali ci lasciano un po’ sospesi, come se tutto dovesse, o potesse ricominciare analogamente in un altro luogo e con altri personaggi. Penna, al contrario, fa dei suoi fanciulli un’unica entità, una sola astrazione: il suo non è un passare di esperienza in esperienza, ma l’eterno ritorno dell’uguale. E così, infatti, accade, al punto che non si riesce a staccarsene. Né da lui, né da Comisso. Ma entrambi restano felici, forse gli scrittori più felici del secolo scorso, anche quando si lamentano. Magari proprio dell’estate, e a ragione, come in questo brano:


La tanto desiderata estate infine ossessiona, non per il caldo, per la sete o per l’insonnia, ma per l’orgasmo precipitoso della folla che vuole muoversi in tutte le direzioni per bruciarsi di sole, per intridersi di polvere, per insozzare l’acqua del mare, per spargere carte unte sull’erba dei prati montani.

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