Leggo e rileggo Comisso. Ho
portato con me il “meridiano” di opere scelte, curato da Rolando Damiani, che
ha scritto una superba prefazione, e da Nico Naldini, che di Comisso è stato
amico, editore, biografo. È una compagnia molto adatta per questi pomeriggi
estivi, già attraversati da un’aria che anticipa settembre. Dopo l’afa e la
polvere, il paesaggio ritrova una freschezza che trasuda anche da queste
pagine. Sembra che non ci sia soluzione di continuità tra quello che ci trovo
descritto, il paesaggio della campagna veneta di un secolo fa, le avventure
sulle sponde dell’Adriatico e il verde che mi passa dalla finestra. L’italiano
di Comisso scorre con la leggerezza elegante di uno stile pulito, asciutto e
necessario; pochi tratti essenziali per un personaggio, che spesso occupa righe
minime; rapidi affreschi per i panorami. La velocità è tutto, per questo
scrittore che ha saputo farsi, molto più modernamente di altri, reporter di se
stesso, filtrando il meglio che poteva venirgli dalla tradizione. Aveva ragione
Sandro Penna a riconoscerlo come il suo vero maestro: questi racconti sono
pervasi da una sensualità avvincente, che rivela un rapporto simpatetico con la
realtà, con il mondo osservato, con gli incontri e le esperienze vissute. Ma
Penna guarda anche dietro le spalle di Comisso, e come D’Annunzio, risolve
quella simpatia in una relazione trasognata. E non si limita a questo: guarda
ancora più indietro, fino a ridiventare arcaico, a ricreare la purezza di un
primitivo che osserva il mondo senza studiarlo, ma con l’infinita sorpresa di
ritrovarcisi. Per questa via, diventa universale. Comisso invece è sempre lì,
concreto, contingente, avvinto a ciò che narra come un innamorato consapevole
dei limiti e della fine di ogni amore, e per questo niente affatto turbato
dalla perdita. I suoi finali ci lasciano un po’ sospesi, come se tutto dovesse,
o potesse ricominciare analogamente in un altro luogo e con altri personaggi. Penna,
al contrario, fa dei suoi fanciulli un’unica entità, una sola astrazione: il
suo non è un passare di esperienza in esperienza, ma l’eterno ritorno
dell’uguale. E così, infatti, accade, al punto che non si riesce a staccarsene.
Né da lui, né da Comisso. Ma entrambi restano felici, forse gli scrittori più
felici del secolo scorso, anche quando si lamentano. Magari proprio dell’estate,
e a ragione, come in questo brano:
La tanto desiderata estate infine
ossessiona, non per il caldo, per la sete o per l’insonnia, ma per l’orgasmo
precipitoso della folla che vuole muoversi in tutte le direzioni per bruciarsi
di sole, per intridersi di polvere, per insozzare l’acqua del mare, per
spargere carte unte sull’erba dei prati montani.
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