«C’è un gran casino, compagni».
Così Santagostini definisce se stesso in rapporto a una topografia suburbana,
mentre si proietta nel passato per consegnarci un ritratto di sé nel pieno
degli anni Settanta, delle loro attese collettive, delle disillusioni
politiche. C’è come una doppia voce, in questo libro: quella che cerca
direttamente di mimare il vuoto aurorale da cui tutto potrebbe (poteva) ancora
avere un inizio, e quella narrante, matura, che le si sovrappone commentando e
che spinge l’altalena tra l’incanto e il disincanto. La lingua di queste poesie
scorre registrando l’impasse del pensiero, i dubbi e i segnali incerti
dell’esperienza: «Sono arrivato a chiedermi», «Mi chiedo se», «non si vedeva
dove», «non dovrebbe mai succedere», «Pensavo», «viene da dire». La realtà
passa al filtro del come se, diventa immagine, metafora. E tutto il libro una
densa e problematica allegoria. Eppure in questa riproduzione così schietta e
difficile del proprio vissuto, sembra esserci ancora posto per l’ingenuità -
nel senso più alto e poetico del termine - e la sorpresa. Lo spazio della
felicità. Se la felicità, come recita il titolo, è «senza soggetto», è perché
Santagostini ha voluto collocarla in quella speciale dimensione, tra due poli,
che sono la materia e l’infinito. Forse, fuor d’allegoria, vita e poesia:
«Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso,
aspettiamo». Sono gli ultimi versi dell’intero libro.
Non si tratta però di uno stallo:
piuttosto è una tensione. Si spiega allora, tra le altre rievocate in queste
pagine, la presenza di Petrarca, con il suo felice (per noi che possiamo leggerlo
e interpretarlo) rovello; ciò che lo lega ad altre figure, solo apparentemente
distanti per quella straordinaria anamorfosi che è la storia umana, ma in
realtà ricche di contatti. L’infinito, in loro, diviene il «tutto», quella
sorta di «maratoneta / eterno in viaggio / verso l’io». Sironi, Van Gogh,
Hopper. Una linea impossibile nella storia della pittura moderna, tra
espressionismo e realismo, eppure un’onda, un fluire carsico che lascia
affiorare nei particolari e nei colori tutta l’inquietudine e l’irrequietezza
di un soggetto di fronte alla sua epoca, anche quando si tratta di un ramo
fiorito o di una stazione di servizio. Ma questo è il punto: il soggetto è
destinato a scomparire, e quella felicità appena intuita nel cuore del
contrasto è consegnata ad altri. Santagostini sa provocare efficaci
cortocircuiti, sdoppiandosi nei panni degli artisti e dei poeti amati, in parte
arrivando a riflettersi in loro per poi negare ogni identità: i personaggi non
sono mai loro, ma creature metamorfiche, calata ognuna nel suo destino. Anche
Mario Santagostini nonno diventa, nella sua cecità, un «semitiresia».
Se la lettura è esatta, la
rievocazione di queste figure fa da cartina di tornasole, da reagente alla
coralità degli anni che il poeta rievoca. Anni fatti per l’appunto di una
«felicità senza soggetto», perché il soggetto non poteva amarsi, ma disperdersi
in un paesaggio dove la natura occupa uno spazio minimale, anche se in
apparenza. Sopra le mimose, e le vespe e le libellule così insistentemente
richiamate, stava e sta un cielo di lampi che può ancora rompere la pietra
della lingua; quella «pietra scalamitata» che ha il potere di guarirti, se le
passi accanto.
Mario Santagostini, Felicità
senza soggetto, Mondadori 2014, e. 17.00
(Io, nel 1985. Ma pensando altri anni)
Guardo il gasometro,
le case Aler, una fila di box, il
tram
quando frena. Una volta, sognavo
qualcosa di meglio
della materia, e della vita.
Ora non sono in grado
d’aspettarmi nulla, l’eterno
poteva essere diverso.
Nessun commento:
Posta un commento