Quella di Luciana Frezza,
scomparsa a Roma, dov’era nata, nel 1992, può definirsi una presenza discreta
nella poesia italiana del secondo Novecento. Conosciuta e stimata anche come
traduttrice, soprattutto della poesia francese dell’Ottocento, richiesta per
questo da editori come Einaudi Feltrinelli e Rizzoli, ha pubblicato in vita
diverse raccolte a partire dagli anni cinquanta, tra cui ricordo La farfalla e la rosa, voluta da Giorgio
Bassani nella biblioteca letteraria della Feltrinelli; la stessa dove apparve Le porte dell’appennino di Paolo
Volponi, per restare in tema di poesia. Negli anni ha affidato la sua opera a
piccoli editori di qualità come Neri Pozza o Empirìa, presso cui apparve,
proprio nel ’92, il suo ultimo e importante libro, Parabola sub. Il suo nome non è certo sconosciuto agli addetti ai
lavori ed è circolato con autorità negli ambienti letterari tra Roma e Milano;
eppure, nonostante alcune proposte postume (come le poesie di Agenda, prefate da Jacqueline Risset per
Scheiwiller nel ’94) la sua opera ha attraversato un vasto cono d’ombra e molti
dei suoi libri – traduzioni a parte – risultano ormai introvabili, così che
Luciana Frezza ha rischiato di mancare all’incontro con nuove generazioni di
lettori.
Quando un autore muore, entra in
una sorta di tunnel. Per renderlo corto, il più corto possibile, occorre un
pubblico consolidato, o l’intervento di un lettore autorevole. Ciò che non è
mancato alla traduttrice, ma che è venuto meno al poeta. Nonostante la sua
poesia, in vita, abbia goduto di svariati consensi e riscontri critici, dopo la
sua morte un silenzio un po’ sinistro ha avvolto l’opera di Luciana Frezza;
raramente il suo nome è tornato nelle storie, nei panorami, nelle antologie che
si sono succeduti negli ultimi venti anni. Nella fretta riepilogativa di fine
millennio, con la quale interpreti non proprio sereni e informati hanno
combattuto per conquistarsi una fragile autorità, molti nomi sono purtroppo
scomparsi dai regesti della poesia. Dunque è stata una vera sorpresa, e
aggiungerei felice, che gli Editori Internazionali Riuniti abbiano accolto la
proposta di Giovanna e Natalia Lombardo, figlie di Luciana e di uno dei nostri
maggiori anglisti, Agostino Lombardo, di riunire in un solo, ampio volume
l’intera opera in versi della madre, insieme alle prose, che intessono in
effetti un dialogo fitto con le poesie, e agli inediti che sono stati rinvenuti
tra le carte dell’autrice. Il quadro sembrerebbe essere a questo punto
completo, e l’offerta di sicuro interesse, se in realtà il rapporto fra poesia
e traduzione non si fosse svolto, per Luciana come per la maggior parte dei
poeti, su un piano paritario, ovvero sullo stesso piano, con le stesse energie.
La traduzione non ha rappresentato un ambito a parte, un’attività collaterale o
addirittura secondaria: è stata, eticamente, lo stesso uso della parola per
giungere al fondo di una condizione umana. Attraverso i francesi Frezza ha
continuato a interrogare se stessa, ha tentato di sciogliere quei nodi, quelle
tensioni che l’hanno accompagnata fin da quando si laureò con Ungaretti, a
Roma, ma con una tesi su Montale.
Tutta la sua poesia, fin dagli
esordi, si attesta come un campo relazionale, come cronaca di incontri e
affetti che hanno segnato un’intera esistenza. All’interno di questa rete le
tensioni inevitabili sono veicolate spesso attraverso il ricorso a una
struttura più profonda come quella del mito, e si tratta invero di archetipi
inferi. Si avverte, nelle relazioni femminili (madre-figlia e simili), l’occulta
ambiguità, tra affetto, possesso, liberazione coatta, che si agita nella
vicenda di Demetra e Persefone; e ancora infera è la declinazione mitologica
dei rapporti tra la dimensione femminile e quella maschile, dominata questa
volta dalle figure di Orfeo e di Euridice, o di Iside e Osiride. Questi ricorsi
al mito sono resi espliciti in Parabola
sub, titolo che sembra alludere proprio al lavoro di discesa e di “scavo”
(ancora Ungaretti) in un comune retaggio ancestrale, ma la matrice siciliana li
richiama, li evoca, direi che li esige fin dai testi di Cefalù e altre poesie, con cui Frezza si presentò ai lettori per la
prima volta. Da poeta che viene dopo i fasti rigenerativi della modernità,
Luciana Frezza ha potuto veicolare i contenuti di quelle storie in maniera
nuova, per portare allo scoperto la radice di quelle contraddizioni, di quelle
tensioni, per l’appunto, di cui il mito è solo il riflesso; Euridice ha tratti
che sembrano eludere ogni sottomissione, maschile e femminile si trovano sul
terreno di uno scontro dialettico piuttosto che su quello di una pacifica e
convenzionale convivenza. La lingua riflette queste oscillazioni, nelle
aggettivazioni e nelle immagini insolite, nel dialogo con l’altro testimoniato proprio dalla
frequentazione dei francesi come da quella di Montale. Allora, letta in
diacronia, dispiegata tutta insieme in questo volume - al quale ci auguriamo
che un giorno possa affiancarsi quello delle traduzioni – questa poesia si
attesta come fiancheggiamento di un divenire intenso e problematico, sotto cui
si agitano viaggi e metamorfosi; e il mare di Cefalù sembra quello di Valéry, o
quello ligure del primo Montale, che ci strappa dalle certezze della fissità.
Luciana Frezza, Comunione col
fuoco. Opera poetica, Editori Internazionali Riuniti 2013, e. 28,00
Alziamo i calici
Non crederli gigli appassiti
mi conforta anzi scintillanti
ancora i tuoi bicchieri alzati
voglia di gioia negata
impuntatura librata
per forza propria ape e fiore nell’aria
dove ancora salgono e il brutto
muso di lutto pret
a porter che detestavi cade
come buccia dal frutto.
© Dino Ignani per la foto di
Luciana Frezza
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