mercoledì 13 agosto 2014

AILANTO n. 5 - Su Luciana Frezza






Quella di Luciana Frezza, scomparsa a Roma, dov’era nata, nel 1992, può definirsi una presenza discreta nella poesia italiana del secondo Novecento. Conosciuta e stimata anche come traduttrice, soprattutto della poesia francese dell’Ottocento, richiesta per questo da editori come Einaudi Feltrinelli e Rizzoli, ha pubblicato in vita diverse raccolte a partire dagli anni cinquanta, tra cui ricordo La farfalla e la rosa, voluta da Giorgio Bassani nella biblioteca letteraria della Feltrinelli; la stessa dove apparve Le porte dell’appennino di Paolo Volponi, per restare in tema di poesia. Negli anni ha affidato la sua opera a piccoli editori di qualità come Neri Pozza o Empirìa, presso cui apparve, proprio nel ’92, il suo ultimo e importante libro, Parabola sub. Il suo nome non è certo sconosciuto agli addetti ai lavori ed è circolato con autorità negli ambienti letterari tra Roma e Milano; eppure, nonostante alcune proposte postume (come le poesie di Agenda, prefate da Jacqueline Risset per Scheiwiller nel ’94) la sua opera ha attraversato un vasto cono d’ombra e molti dei suoi libri – traduzioni a parte – risultano ormai introvabili, così che Luciana Frezza ha rischiato di mancare all’incontro con nuove generazioni di lettori.
Quando un autore muore, entra in una sorta di tunnel. Per renderlo corto, il più corto possibile, occorre un pubblico consolidato, o l’intervento di un lettore autorevole. Ciò che non è mancato alla traduttrice, ma che è venuto meno al poeta. Nonostante la sua poesia, in vita, abbia goduto di svariati consensi e riscontri critici, dopo la sua morte un silenzio un po’ sinistro ha avvolto l’opera di Luciana Frezza; raramente il suo nome è tornato nelle storie, nei panorami, nelle antologie che si sono succeduti negli ultimi venti anni. Nella fretta riepilogativa di fine millennio, con la quale interpreti non proprio sereni e informati hanno combattuto per conquistarsi una fragile autorità, molti nomi sono purtroppo scomparsi dai regesti della poesia. Dunque è stata una vera sorpresa, e aggiungerei felice, che gli Editori Internazionali Riuniti abbiano accolto la proposta di Giovanna e Natalia Lombardo, figlie di Luciana e di uno dei nostri maggiori anglisti, Agostino Lombardo, di riunire in un solo, ampio volume l’intera opera in versi della madre, insieme alle prose, che intessono in effetti un dialogo fitto con le poesie, e agli inediti che sono stati rinvenuti tra le carte dell’autrice. Il quadro sembrerebbe essere a questo punto completo, e l’offerta di sicuro interesse, se in realtà il rapporto fra poesia e traduzione non si fosse svolto, per Luciana come per la maggior parte dei poeti, su un piano paritario, ovvero sullo stesso piano, con le stesse energie. La traduzione non ha rappresentato un ambito a parte, un’attività collaterale o addirittura secondaria: è stata, eticamente, lo stesso uso della parola per giungere al fondo di una condizione umana. Attraverso i francesi Frezza ha continuato a interrogare se stessa, ha tentato di sciogliere quei nodi, quelle tensioni che l’hanno accompagnata fin da quando si laureò con Ungaretti, a Roma, ma con una tesi su Montale.
Tutta la sua poesia, fin dagli esordi, si attesta come un campo relazionale, come cronaca di incontri e affetti che hanno segnato un’intera esistenza. All’interno di questa rete le tensioni inevitabili sono veicolate spesso attraverso il ricorso a una struttura più profonda come quella del mito, e si tratta invero di archetipi inferi. Si avverte, nelle relazioni femminili (madre-figlia e simili), l’occulta ambiguità, tra affetto, possesso, liberazione coatta, che si agita nella vicenda di Demetra e Persefone; e ancora infera è la declinazione mitologica dei rapporti tra la dimensione femminile e quella maschile, dominata questa volta dalle figure di Orfeo e di Euridice, o di Iside e Osiride. Questi ricorsi al mito sono resi espliciti in Parabola sub, titolo che sembra alludere proprio al lavoro di discesa e di “scavo” (ancora Ungaretti) in un comune retaggio ancestrale, ma la matrice siciliana li richiama, li evoca, direi che li esige fin dai testi di Cefalù e altre poesie, con cui Frezza si presentò ai lettori per la prima volta. Da poeta che viene dopo i fasti rigenerativi della modernità, Luciana Frezza ha potuto veicolare i contenuti di quelle storie in maniera nuova, per portare allo scoperto la radice di quelle contraddizioni, di quelle tensioni, per l’appunto, di cui il mito è solo il riflesso; Euridice ha tratti che sembrano eludere ogni sottomissione, maschile e femminile si trovano sul terreno di uno scontro dialettico piuttosto che su quello di una pacifica e convenzionale convivenza. La lingua riflette queste oscillazioni, nelle aggettivazioni e nelle immagini insolite, nel dialogo con l’altro testimoniato proprio dalla frequentazione dei francesi come da quella di Montale. Allora, letta in diacronia, dispiegata tutta insieme in questo volume - al quale ci auguriamo che un giorno possa affiancarsi quello delle traduzioni – questa poesia si attesta come fiancheggiamento di un divenire intenso e problematico, sotto cui si agitano viaggi e metamorfosi; e il mare di Cefalù sembra quello di Valéry, o quello ligure del primo Montale, che ci strappa dalle certezze della fissità.

Luciana Frezza, Comunione col fuoco. Opera poetica, Editori Internazionali Riuniti 2013, e. 28,00

Alziamo i calici
Non crederli gigli appassiti
mi conforta anzi scintillanti
ancora i tuoi bicchieri alzati
voglia di gioia negata
impuntatura librata
per forza propria ape e fiore nell’aria
dove ancora salgono e il brutto
muso di lutto pret a porter che detestavi cade
come buccia dal frutto.


© Dino Ignani per la foto di Luciana Frezza

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