Rispetto ad autori arroccati nella
precarietà del loro vissuto, in Bonnefoy si assiste a un sistematico
ampliamento d’orizzonte: il margine di individuale che talora traspare e pone
il sigillo della necessità su questa grande poesia - ovvero quel lento,
inesorabile accompagnarsi alla presenza della caducità e della morte - marca
fin dagli esordi l’officina di questo autore, ponendone gli esiti in una
tradizione di poesia pensante. A differenza di altri compagni di strada, pur
illustri come Deguy, Bonnefoy sa che l’equilibrio tra metafora e riflessione va
raggiunto attraverso il conio di immagini eloquenti, ma pur sempre immagini.
Probabilmente, nell’area francofona e in una contiguità di generazione, solo Stéfan
e Jaccottet, pur con i dovuti distinguo, hanno saputo nel tempo elaborare un
proprio riconoscibile apparato iconico, che si realizza e agisce nella
straordinaria compattezza di uno stile:
ovvero nel raggiungimento di una lingua piena, totale, che si staglia
miracolosamente sulla palude postmoderna, nutrendosi di vita e di filosofia,
sintetizzandole in un nuovo codice. È una lingua ritagliata dalla complessità
del presente, dal palese discernimento delle sue illusioni e delle sue
lusinghe; una lingua che parla il lessico riconoscibilissimo della classicità.
Questo segna il discrimine di Bonnefoy rispetto alla poesia che è venuta dopo
di lui: non v’è traccia nei suoi versi di alcun atteggiamento classico, ma vi si riscontra l’autenticità di un
sapienziale, maturato distacco dal contingente, e l’approdo non alla facile,
scontata deriva metastorica di molta poesia del tardo Novecento, quanto a
quella lunghezza d’onda che trascende l’attualità, ne distilla la semantica
essenziale e la trascina nuovamente verso il futuro. Insomma, l’onda
dell’inattualità, potente e ricca di fertilissimi detriti, quelle «pietre» che
così frequentemente siglano molti dei suoi componimenti.
Verrebbe da considerare che i suoi versi
si siano assestati dentro un principio coerente, dentro un vero e proprio
logos, lungo quel filone che da Pascal giunge nel pieno della modernità, a
Leopardi, ai romantici tedeschi (meno alla pregnante visionarietà degli
inglesi, almeno quelli di prima generazione); laddove il pensiero si condensa
in una forma altra e si affaccia pericolosamente sui territori della finitudine
e del nulla, quella stessa forma interviene a sostenerlo e a riscattarlo. E
come accade a ogni sincera aspirazione alla chiarezza, anche Le assi curve, apparso nella traduzione
di Fabio Scotto, delimita nell’immediato un proprio territorio esplorabile,
aperto alle suggestioni della lettura, alla fascinazione dei suoi
attraversamenti. Il titolo, al di qua delle connotazioni che andrà assumendo
nei testi, suggerisce fin dall’inizio un duplice significato spaziale,
rinviando estensivamente alla curvatura della volta celeste, alla sua discussa
infinità, così come alla tortuosità di un percorso speculativo, nella cui
difficoltà si riflette la dolente complessità dell’esistente, la sua
inafferrabilità.
Il lettore italiano entra all’interno di
questo libro con il viatico di un repêchage
simbolista, pascoliano, dal titolo eloquente: Les rainettes, le soir (Le
raganelle, la sera). Certo, manca qui il magnetismo della musicalità di Myricae, la sua impressionante
orchestrazione e il testo appare
tutt’altro che un dovuto omaggio, pur riconoscendo i palesi legami di Bonnefoy
con la nostra cultura; e rispetto ai possibili modelli, di qua e di là delle
Alpi, a dominare è una forte corrente di immagini, che sembra trascinarsi in un
affresco ontologico, in una vorticosa ricognizione dell’essere e della sua
identità, rievocando perfino una notissimo luogo montaliano. Ecco questo breve
testo d’apertura: «Rauche erano le voci / Delle raganelle la sera, / Qui dove
l’acqua della vasca, scorrendo silenziosa, / Brillava nell’erba. // E rosso era
il cielo / Nei bicchieri vuoti, / Tutto un fiume la luna / Sulla tavola
terrestre. // Afferravano o no le nostre mani, / La stessa abbondanza. / Aperti
o chiusi i nostri occhi, / La stessa luce».
La classicità di Bonnefoy si racchiude e
si esemplifica nello spazio di questi pochi versi, non tanto per l’evidente
dialettica con il mondo naturale, con la densità dei suoi archetipi, sole (sebbene
rappresentato al crepuscolo, per metonimia, dal cielo arrossato) e luna, quanto
per la piana colloquialità, per quella domanda finale inattesa, folgorante
anche se priva di punto interrogativo, come fosse rimasta sospesa a metà tra un
quesito drammatico e un’asserzione duramente conquistata. E per quel verbo,
«afferrare» (nell’originale non il corrispettivo saisir ma il più sfumato prendre,
anche se la scelta del traduttore resta più che condivisibile), declinato
nell’indefinita iteratività dell’imperfetto, come ad assumere una più marcata
esemplarità, intrisa di vitalismo, comprensione, riconoscimento dei soggetti
nella loro umana limitatezza, davanti a una natura che tutto può contenere e
riassumere e, al contempo, disperdere, affidando silenziosamente, come l’acqua
che fuoriesce dalla vasca, la propria materia al fluire spossessante del tempo.
Bonnefoy si riappropria, per rielaborarla, della formula tradizionale che
accomuna sullo stesso piano simbolico l’”inafferrabilità” dell’acqua e della
storia (ecco motivata la scelta di Fabio Scotto), dai latini a Brodskij, e
chiude modernamente il suo componimento con una modulazione topica del mondo
simbolista, la «luce». Ne ritroviamo le ragioni profonde nel poemetto centrale
del libro, sintomaticamente intitolato Dans
le leurre des mots (Nell’inganno
delle parole); dove, rivolgendosi direttamente alla propria musa, il poeta
può tornare a dichiarare con rara lucidità: «Io so che ti disprezzano e ti
negano, […] / Che dicono infetta l’acqua che tu porti / A quelli che tuttavia
desiderano bere / E delusi si allontanano, verso la morte. // […] Ma so
comunque che non esiste altra stella / Che si muova, misteriosamente,
auguralmente, / Nel cielo illusorio degli astri fissi, / Se non la tua barca
sempre oscura, ma dove ombre / Si raggruppano a prua, e perfino cantano / Come
un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva / Davanti a loro, alla fine
del lungo viaggio, / La terra nella schiuma, e brillava il faro». Sono versi
eloquentissimi, epicamente proiettati verso la necessità e l’inattualità che
segnano tutto il suo percorso. È in quel «perfino» la pervicace potenza della
poesia, per Bonnefoy, in questa capacità di stupore: nel fatto stesso di poter
ancora cantare, senza sapere dove si concluderà il tragitto, se mai il viaggio
avrà il suo termine su una costa illuminata. La barca dei poeti è «sempre
oscura», come il destino, come la morte.
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