Dopo
alcune pregevoli apparizioni in rivista («Poeti e Poesia») e nell’Almanacco dello Specchio 2008, dov’era
introdotto da Mario Benedetti, Sergio Costa giunge al suo primo libro, Un’intera umanità. La pubblicazione è
conseguente all’assegnazione del Premio Cetona Verde, una iniziativa che si
distingue particolarmente per l’attenzione riservata alla poesia più giovane,
ma va ricordato che Costa si era aggiudicato anche il Premio Sandro Penna per
l’inedito nella sua – purtroppo – ultima edizione. Da diversi anni i lettori
più avveduti hanno iniziato a puntare su questo giovanissimo autore siciliano,
studente a Catania e poi a Palermo, quindi trasferitosi a nord, come molti, per
seguire un master in editoria, e lì rimasto. L’esordio, nella «collana» curata
da Maurizio Cucchi, è senz’altro pregevole e posiziona Costa tra i migliori
talenti della sua generazione, quella dei trentenni, dalla quale, per molti
aspetti, prende le distanze.
Ciò
che colpisce a prima vista è l’asciuttezza del dettato (molto opportunamente il
prefatore Cucchi scrive di «impeccabile asciuttezza lucida dello stile» e di
«chiarezza degli spunti tematici»), unitamente a una capacità di dominio e di
costruzione davvero rara. Ma non si intenda un’opera monocorde, da questo punto
di vista: il lettore che superi la prima parte non mancherà di notare, nella
seconda metà del libro, un certo cambio di tono e di registro, e nei referti
autobiografici (belle le pagine su Palermo, ad esempio) quell’asciuttezza torna
a intridersi di un’umanità che solo il distacco di uno sguardo razionale
sembrava relegare in secondo piano. Si tratta, per l’appunto, di un effetto.
È invece
difficile riconoscere il confine tra ontogenesi e filogenesi, in queste
creature di Costa, a metà tra mondo animale e mondo umano. La loro vera
identità sembra perdersi molto lontano, più di quanto riesca a supportarlo la
sua innegabile chiarezza. Tra animali e uomini, protagonisti soprattutto della
prima parte, passa, come avrebbe detto Auden, soltanto una virgola di senso. Il
«primo nucleo» vitale che diviene «pappa malcerta» ripercorre in una efficace
sintesi metaforica la storia dell’individuo dentro la sua specie, ma Costa, da
poeta, sa che anche questi sono confini molto labili, e che la specie a cui si
allude è qualcosa di molto più ampio, al punto da non riuscire più a
distinguere chi sia, in effetti, la «bestiola» destinata al disadattamento, se
non una vaga icona della natura tutta. Questa figura combatte anzitutto contro
se stessa, si integra «fino al suo stesso azzeramento»: per questa via la
metafora diviene racconto più esteso e costruisce un reticolo allegorico ancora
dominato dalla severità del risentimento giovanile. Non importa più, come
poteva accadere a Esopo, che gli animali prestino i loro connotati agli umani,
o che accada il contrario, come in Krumm o in Pecora: la strada scelta da
Costa, credo con una buona dose di consapevolezza, non è quella che conduce
all’apologo, ma a una forma sottile di critica. Di che cosa? Sembrerebbe di una
condizione condivisa, piuttosto che del semplice presente, quel presente che
«solo accade» e che pure è visitato dalle presenze fantasmatiche dei morti. È
proprio questa condizione a costringere il poeta a ripercorrere a ritroso i
processi di formazione della specie. Con ogni probabilità, Costa, tra i suoi
compagni di strada, si affaccia sulla scena della poesia come l’ultimo
disincantato biologo illuminista: leggendolo, vengono in mente certe pagine
della Giornata d’uno scrutatore di
Italo Calvino.
Sergio Costa, Un’intera umanità, prefazione di Maurizio Cucchi, Stampa 2009, 2016, e.
12.00.
Sul ponte, 1985
Il
cielo è pulito e l’aria pizzica.
E c’è
un vento che viene dal mare
che si
mostra sui nostri vestiti come un panneggio.
Così
l’azione regolare, quotidiana
che tu
compi chiudendomi
con
cura la giacchetta sul ponte
è
quella di un’intera umanità.
Per
me soltanto lì si condensa.
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