È appena apparso il nuovo libro di poesie di Annalisa Manstretta, per l'editore ATì. Si intitola Gli ospiti delle stagioni. Posto il mio scritto che lo accompagna come postfazione e auguro successo a questa nuova impresa.
Provo a riassumere il vasto bestiario alato che popola queste nuove
poesie di Annalisa Manstretta: civette, gufi, aquile, falchi, poiane, gazze,
cuculi, passeri, merli, cince, cardellini, fringuelli, rondini, corvi,
codirossi. E i più domestici galli, galline, pappagalli. Se pure rinunciassimo
a scovare, o solo a intuire la presenza delle creature di terra, basterebbero
già gli uccelli a farci spostare continuamente lo sguardo tra l’alto e il
basso, e infine verso gli orizzonti di questi paesaggi stagionali.
Una delle poesie si intitola Due
e direi che questo è il numero che domina: siamo di fronte a un’opera
decisamente binaria, agita da un doppio movimento interno. Così è dei nostri
occhi, invitati spesso a frequentare dimensioni opposte, lontane, che la scrittura
di questo libro rende invece complementari: dalla terra verso il cielo, dal
cielo di nuovo verso la terra, come accade al merlo in Fuori di casa. Da una parte c’è il confronto, la dialettica tra
l’immobilità e il divenire, che è nel grande apparato allegorico delle
stagioni; dall’altra ci sono gli «ospiti», le figure ora rassicuranti, ma
perlopiù inquietanti, che si muovono in una geografia prossima, riconoscibile,
finanche abituale. Questi personaggi, reali o immaginari, animali di bosco,
montagna e pianura, paesi, oppure costruzioni della mente, abitatori dei sogni,
sembrano perfettamente a loro agio in questi versi: ne sono gli autentici
inquilini. L’elemento umano, pure presente, occupa uno spazio, e un’attenzione,
decisamente inferiori. Alla fine, nell’immensa sfera del cielo, non resta che
la luna, o il sole: gli astri, per tradizione, testimoni e indifferenti.
Lo sguardo e le stagioni, dunque: ovvero lo spazio e il tempo. Con
queste categorie, modulate attraverso le rappresentazioni della natura,
Annalisa Manstretta disegna quadri mobili, ne cattura le inquietudini più
interne, lascia affiorare da sotto l’apparenza del bozzetto, della sua
pennellata ora diretta, ora impressionistica, il piccolo, ma significativo
affresco delle tensioni che rendono vivo ed essenziale il suo rapporto con il
mondo dell’esperienza. Un mondo che «ha dentro gli occhi della gente e non ci
vede». La descrizione non resta mai, in ogni poesia di questo libro, un
tentativo fine a se stesso. Il cambio delle stagioni, l’apparizione di un
animale o di una nuvola, l’accendersi di un tramonto, le fasi della luna
compongono nel loro insieme una vera e propria fenomenologia della percezione
visiva, dominata però dall’impossibilità, dalla chiusura, dalla mancata
reciprocità tra l’osservante e l’osservato: una «solitudine corale». Lo
sguardo, proprio laddove sembra abbracciare una porzione ampia di realtà, è già
imploso nei territori ambigui delle metafore e dei simboli, guarda al proprio
interno, retroflesso tra i fantasmi. Questi paesaggi non hanno forma, simili
alle nuvole cangianti che l’immaginazione legge come draghi; o meglio, la loro
forma è il movimento, la metamorfosi, il superamento della forma stessa.
Anche il tempo è invertito, non è quello convenzionale che procede dalla
primavera: la rinascita, la rigenerazione non sono qui il punto di partenza, ma
una tappa nel percorso alterno tra luce e ombra, tra giorno e notte. È il buio, infatti, a
inaugurare questo libro: l’oscurità progressiva dell’autunno, la prima stagione
evocata, che «ti accoglie già prima di cena» e allunga lo spazio delle notti.
Uno spazio contrastivo: la vita animale riempie la scena, emerge in primo
piano, ma il poeta registra tutta la propria inadeguatezza alla tenebra, al suo
ritorno dopo i fasti dell’estate. «Non sono fatta per la notte», «Inadatta alla
notte»: ammissioni che spostano anche il nostro consueto recinto simbolico
verso un’inusitata zona d’accoglienza, verso regioni generose da cui penetrano
altre ombre, altre rappresentazioni.
La sensazione è che la pluralità degli ospiti si condensi all’interno
di un unico, vero ospite che qui, se la lettura è corretta, assume svariate
identità, ora umane, ora animali, ora aeree e fantastiche. C’è il vento e il
suo analogo femminile, la «venta»: ci sono, in perfetto parallelo, lupi e
lupesse; e ancora i draghi, o la chimera che prende tutto il campo finora
riservato alle specie del cielo, per poi scomparire lontano; e c’è anche un
cacciatore, anzi il cacciatore, che
penetra queste poesie come affacciato da una finestra kafkiana e ci immette
fumi neri negli occhi, impedendoci ancora una volta di guardare e di essere
guardati. A cosa rimandano tutte queste proiezioni di una sola, inquietante
estraneità?
Mi rifaccio a un esempio distante, ma credo coerente con la spinta
emotiva che regge la relazione tra soggetto e mondo in queste nuove poesie di
Annalisa Manstretta. Nel bestiario assolutamente fantastico di Borges ci
s’imbatte in una creatura particolare, il cui aspetto primario coincide proprio
con l’invisibilità, con il sottrarsi allo sguardo. Il suo nome è inglese,
perché Borges s’inventa di aver tratto questo strano animale da una leggenda
dei boscaioli del Wiscounsin: si tratta dello Hide-behind. Nella solitudine di quelle foreste, gli uomini
avvertono la sua presenza, sempre alle loro spalle, ma non riescono a
scorgerlo, perché quando provano a voltarsi, anche con il più veloce degli
scatti, lo Hide-behind è sempre più
veloce di loro e resta per l’appunto invisibile. Percettibile ma non visibile:
ciò che resta nascosto-dietro, come dice il suo nome. È una chiara allegoria di
quel grumo inespresso di ossessioni, di ansie, di paure che domina ogni
interiorità. Ma l’inadeguatezza alla notte che apre questo libro, quel buio che
non lascia funzionare gli occhi, ancora pieni della luminosità estiva, non
smuove forse altrettante ansie e paure?
Ogni stagione muove uno spavento. Voci di uccelli accompagnano la
mutazione, «La paura non vuole concetti / va per variopinte figure aggressive /
pesca nel medioevale, saccheggia i bestiari», scrive Manstretta. Ma sotto la
superficie degli incubi, delle anamorfosi, il soggetto è chiamato a resistere,
a dominarsi. C’è una carica gnomica che traspare a tratti e che riecheggia
altre mostruosità, altri «giganti senza faccia»: no che non devi temere
Lestrìgoni e Ciclopi, scriveva Kavafis, che con l’autrice condivide la
riflessione sulla densità del tempo, e la tensione tra circolarità del mito e
linearità della storia, della vita umana. Proprio questa tensione è il
territorio dove le poesie di questo libro insorgono, poiché qui si interrompe
il parallelismo fisiologico tra la sequenza delle stagioni e la crescita degli
individui, il loro divenire. Anzi, quella linearità viene per sempre inscritta
dietro il puntuale avvicendarsi di autunno e inverno, primavera e estate. Il
paesaggio che si ripresenta non è mai lo stesso, ma tutt’al più un suo analogo,
dal quale il soggetto è estraniato: la luna può tornare a brillare, ogni sera,
mentre noi «spariamo di notte nelle nostre camere» e sono soltanto i nostri
«panni leggeri» a dar conto che l’aria, tutt’intorno, si è fatta «più mite» (Panni leggeri).
Poco importa se aprile, come di fatto è, resta il più crudele dei
mesi. Ogni stagione è un punto di svolta e vale per sé, di per sé. Sospeso tra
flussi e immobilità, come tra Scilla e Cariddi, il soggetto può perfino
immaginarsi di farsi lui stesso stagione, la quinta, quella fuori norma,
extra-ordinaria: la stagione inattesa, senza occhi, non vista, e che non vede.
Quella dove perfino la chiarità del sole risulta un inganno, un’apparenza e
così lo spazio e il tempo, come già suggeriva Novalis in uno dei suoi inni. La
stagione implicita, quella che ci riporta alla verità della notte.
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