Ci sono molti modi, e anche molti
“ingredienti”, per declinare il nostro sentimento del tempo. Michael Krüger
lo sa bene. Il suo nuovo libro del 2013, apparso quest’anno in italiano nella
traduzione di Anna Maria Carpi, infaticabile traghettatrice della poesia
tedesca, si intitola Spostare l’ora,
ed è certamente tra i libri più densi e complessi che siano apparsi sul tema.
Questo poeta, infatti, non si limita a definire il senso della caducità con il
tono elegiaco di molta poesia moderna, ma lo racconta, e lo analizza, secondo
una più ampia tradizione, in rapporto alla natura. Anzi, in tutto questo libro
si gioca una partita importante tra natura e ragione, a partire dall’epigrafe
iniziale da Ramón Gómez de la Serna (o Sierna): «La ragione procura sempre tristezza», a
cui fa da perfetto controcanto la chiusa di una poesia come Casa per l’estate, Pasqua: «Nessuno sa
come nasca la bellezza / e nessuno vuol sapere perché / noi ne abbiamo bisogno,
è che una volta tanto / vorremmo non doverne parlare».
Questa chiusa, come un po’ tutte le
poesie del libro, che si concentrano le loro immagini in un sorta di vortice aforismatico,
in un nucleo che racchiude i significati possibili, ha un po' l’aspetto di una greguería, ovvero di quella frase un po’
ingegnosa che si costruisce sullo scontro fra ragione e realtà. È un vero e
proprio genere, il cui iniziatore è stato de la Serna; il quale, tra l’altro, è
stato un importante frequentatore delle avanguardie, oltre ad essere il punto
di riferimento, neppure ventenne, dei futuristi spagnoli. Spostare l’ora ha in sé anche quest’ambizione, di cavalcare il
tempo, di dominarlo attraverso l’unico gesto possibile: spostare in avanti le
lancette dell’orologio. Ma è proprio nell’esercizio di questo piccolo dominio
meccanico che il poeta si ritrova calato, inevitabilmente, in quel dissidio
primario, dove le leggi implicite del mondo naturale e gli sforzi della ragione
per ricaricare di senso quello stesso mondo ripetono una ben più antica
dicotomia. Natura e ragione si fronteggiano, in queste ultime poesie di Krüger,
ma lo fanno sullo sfondo del tempo, del suo fluire e delle sue inesorabili,
crudeli metamorfosi. Il futuro, se ci sarà, sembra tutt’altro che un luogo
ospitale; e ogni tentativo di chiamare nuovamente le cose (c’è un continuo impegno
nominalistico, in questa scrittura, che riporta i segni linguistici a
un’immagine originaria, pura) deflagra sulla soglia delle nostre (e non solo
nostre) finitudini.
Per questo non ha senso interrogarsi
sulla bellezza, che è lì dove
possiamo e sappiamo riconoscerla. E soprattutto ci continua a donare le sue
parole, rispetto alle quali le nostre, così intrise di contingente mortalità,
si mostrano come povera cosa. Superare limiti e confini, che sono della nostra
condizione quando si consegna alle armi della ragione, vuol dire ritrovare quel
rapporto ancestrale con la natura e con il suo linguaggio. Così, finalmente,
possiamo pensare di perdere la nostra casa, le sue dimensioni abitudinarie, per
imbatterci in una casa più grande, come accade agli uccelli di Passeggiata nel bosco: «Poi se ne vanno.
È ancora poco chiaro / se volino ad Atene o a Gerusalemme, / poiché se
appartieni al bosco / ti dimentichi dov’è casa tua».
Michael
Krüger, Spostare l’ora, trad. di Anna
Maria Carpi, Mondadori 2015, e. 18.00
Non è un haiku
Un merlo morto
sotto la mia finestra.
Per un’ora aspetto
che si sposti
l’ora.
l’ora.
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