domenica 9 agosto 2015

AILANTO n. 19 - Su Domenico Adriano


C’era una rivista di letteratura, a Roma, negli anni Ottanta. Si chiamava «Arsenale» ed era diretta e animata, tra gli altri, da Gianfranco Palmery e Giovanna Sicari. Intorno a quell’esperienza si era consolidata, nel tempo, anche una piccola ma preziosa attività editoriale, «Il Labirinto», sopravvissuta alla stessa rivista. Gli autori proposti facevano parte del gruppo di «Arsenale» o vi gravitavano intorno: Francesco Dalessandro, Sauro Albisani, Annelisa Alleva. Frequenti anche le traduzioni, e voglio qui ricordare almeno i nomi di Keats e di Jude Stéfan, poeta amato da Sergio Solmi. Anche Domenico Adriano, di cui appare oggi Dove Goethe seminò violette, frequentava gli incontri di «Arsenale».
Il titolo allude a un ideale giardino di poeti, a una specie di hortus del sogno e della memoria, in cui, non a caso, ci imbattiamo in ombre romane (Dario Bellezza, lo stesso Palmery) o assistiamo a rapide pennellate di ritratti di viventi (Patrizia Cavalli). Il giardino, dove riposano anche Keats e Shelley, si identifica con quel luogo speciale, caro a tutti i cultori della poesia, che è il cimitero acattolico di Testaccio. Accanto a questi nomi, e a Bellezza, vi riposano Wilcock, Gregory Corso, Amelia Rosselli e molti altri. Vorrei partire da questa immagine per avviarmi nel libro di Adriano, libro straordinariamente compatto e cementato proprio dai due assi della visione onirica e del ricordo (ed entrambi, a loro volta, leopardianamente congiunti in una sola corrente affettiva, che quasi inebria il lettore di un’aria lirica un po’ desueta, felicemente sabiana, in un rigore assoluto di dettato e di stile; a fronte di molta poesia odierna sembra davvero rinviare ad altre e più nobili stagioni). Il volume è introdotto da un’epigrafe da Szymborska, con l’immagine del bussare alla porta, e si chiude con la stessa immagine. Coerentemente. Come il Nobel polacco bussa «alla porta della pietra», così un altro personaggio, Maria Obolensky, bussa alla porta del pensiero, in quel giardino di pietra che ospita i poeti. Forse ai più dirà poco o nulla, questo nome, ma appartiene a una giovane russa morta nel 1873, appena diciassettenne, e alla quale è dedicata una delle più belle tombe con rappresentazione a tutto tondo del cimitero di Testaccio. Un’allegoria nell’allegoria: fugacità e finitudine, bellezza e caducità si scontrano con la durata della poesia, la drammaticità della morte con il cristallo dell’arte.
Tutto ciò si ridurrebbe alla ripetizione di un luogo letterario, se non intervenisse, nei versi di Adriano, proprio quel cemento affettivo, che restituisce vita a ciascun personaggio, rendendolo prossimo e legandolo, inoltre, a una fitta rete di icone famigliari che trascendono la stessa biografia del poeta e affiorano da più lontano, dai tempi remoti della guerra, dei bombardamenti. Qui il naturale e l’umano si collocano sullo stesso piano, secondo una prospettiva che procede dal basso verso l’alto: a dominare sono figure di alberi e uccelli, nelle quali il poeta ricostruisce le proprie figure dell’affettività, ma non secondo una precisa scansione dei ruoli. Si può essere madri, padri o figli, o nonni, davvero senza una precisa soluzione di continuità, poiché il flusso della memoria coinvolge ogni evocazione e ogni apparizione in una sola, fittissima rete, le cui maglie sono fatte di poesia. Ce lo rivela il sistema delle citazioni, esplicite o implicite, che rimandano alla nostra migliore tradizione lirica: e, ancora una volta, la linea Leopardi-Saba sembra dominare questo libro che trasuda un’insolita felicità.

Domenico Adriano, Dove Goethe seminò violette, Il Labirinto 2015, e. 12.00.

«Non vedo più non distinguo
i colori. Ora mi aiuta solo
il pensiero. E se io fossi un uccello?
Non potrei nutrirmi
della mela più alta, di una ciliegia
rossa, del fico che arde
fin dal primo mattino.
                                         Avessi le ali,
andrei figlio incontro al mare».

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