martedì 10 marzo 2015

AILANTO n. 16 - Su Simone Zafferani





Ho sempre più di un dubbio, quando si discute di poesia, sulla categoria di “appartato”. Ci sono, è vero, autori che vivono discosti, volutamente ai margini di un sistema letterario che però appare sempre meno riconoscibile e frantumato; così come ce ne sono che faticano quotidianamente per tenersi sotto il riflettore che si illudono di avere conquistato. Ciò che conta è solo ciò che può restare, ovvero le poesie stesse. Ogni poeta autentico, che non scende a compromessi con la propria scrittura, sa bene, ad ogni apparizione, di lanciare un messaggio in bottiglia nel vasto e imprendibile oceano della contemporaneità; per questo, forse, preferisce naturalmente guardare al futuro, a un futuro che vorrebbe sempre più lontano. È quanto accade anche a Simone Zafferani, classe 1972, una delle voci più nitide e interessanti della generazione dei quarantenni. Con una breve, ma densa e partecipe nota di Biancamaria Frabotta, che lo fa discendere dall’umbratilità del primo Sereni, Zafferani ha appena congedato la sua ultima raccolta, L’imprevisto mondo. È un libretto piuttosto agile, che non raggiunge le settanta pagine, qualcosa di più di una plaquette e qualcosa in meno di un libro; eppure il lettore si ritrova proiettato in un percorso scandito attraverso sei sezioni, rigorosamente ordinate, che nulla hanno a che vedere con le felici casualità di tanti piccoli libri.
Zafferani è un lettore attento, a sua volta, della poesia contemporanea. La studia, la conosce, la metabolizza come autore e come critico, anche se in questa seconda veste le sue apparizioni sono ancora più rare. Ma la sua intelligenza dello scavo gli consente di stabilire rapporti diretti con quanto viene a contatto; la scrittura, anche quella lirica (strada dominante nella tarda modernità, seppure difficile e non priva di rischi, specie in tempi di rigurgiti sperimentali ed éngagement che trasudano facili ipocrisie), si nutre costantemente di questi confronti, li cerca come si può guardare a delle matrici stabili, a delle fondamenta su cui, a nostra volta, costruire un edificio di poesia. L’imprevisto mondo è una conferma. In questa minima enciclopedia del dolore e della morte, alle cui morse il poeta non sa sottrarsi, siamo introdotti con il viatico di Wislawa Szymborska, che ci invita ad accogliere lo straniamento all’insegna della normalità: un «mondo ovvio non esiste affatto, il nostro stupore esiste di per se stesso». Così la vita si riappropria dell’imprevisto e ne fa narrazione, racconto, finanche cronaca privata, ma sempre con lo sguardo e l’attenzione rivolti al coagulo di quell’essenzialità che trascende ogni esperienza individuale e la riammanta di possibilità di condivisione. I giorni diventano legna da ardere, «fotogrammi» di dolore da ammaestrare, da «mettere a posto» nell’equilibrio delle emozioni. Si svolge, in queste poesie, una fenomenologia del vedere (Emily Dickinson presta il titolo alla seconda sezione) che si concentra sui dettagli minimi, ma Zafferani elude la strada del minimalismo aprendoci immediatamente il cammino verso una zona più intima, dove ritrovare la «vorticosa bellezza» di una lingua depurata, «bianca come un’ostia»: un grado zero sia dell’esperienza che dell’espressione, in grado di mostrarci l’imprevisto che ci abita e in cui insieme sostiamo, in una incessante tensione tra ciò che scorre e diviene (immagini di morte, immagini d’acqua) e il nostro infaticabile tenerci alla vita.

Simone Zafferani, L’imprevisto mondo, La Vita Felice, 2015, e. 12,00.

ci sono sogni che spezzano in due la notte
lasciando l’anima in mezzo a cucire
i lembi, col rischio di cadere
e l’onere di riportare le prove
nel mondo luminoso dei giusti.

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