Claudio Gargano è quello che si
dice un poeta “indipendente”. Lo è per la garbatezza con cui pubblica e
dispensa le sue raccolte, tutte edite da piccoli editori di qualità o in forma
di piccole plaquette, e perché di rado ci si imbatte in lui, nelle occasioni in
cui la poesia si mostra in pubblico, se non nella veste di spettatore attento.
La mole degli interventi sul suo lavoro poetico non è cospicua e i suoi
riferimenti, piuttosto che attingere al grande serbatoio della tradizione
italiana o francese, respingono tentazioni orfiche e simboliste volgendolo alla
ricerca di modelli più pacati e narrativi, come quelli di certa poesia inglese
o americana. La sua officina, dunque, vive e si attesta per suo conto, senza
inseguire facili mode e nutrendosi anche di un grande patrimonio narrativo
novecentesco, di altissima levatura, come mostrano gli scaffali della sua
biblioteca. Gargano è anche un raffinato interprete di quella narrativa: basti
ricordare, qui, almeno il volume dedicato all’omosessualità nella letteratura
italiana del Novecento e l’altro, ugualmente denso, su Capri “uranista”.
Ma la parte del suo lavoro che mi
ha coinvolto di più resta quella della poesia. Da non so più quanti anni ormai,
e dunque da sempre, Gargano va disegnando una sua dimensione femminile, così
evanescente da trasfigurarsi, nei versi, nel suo esatto contrario. Ogni sua
poesia è centrata su una donna, in forma di lettera, di dedica, di ritratto:
ogni sua donna diventa immediatamente il personaggio, la tappa, di un inesausto
travaglio nei confini del femminile. Di testo in testo, di raccolta in
raccolta, Gargano insegue la sua dame
sans merci; ne avverte tutto l’incanto e il pericolo; sa benissimo che ogni
infrazione al codice nuziale si tramuterebbe, nel concreto, in una effrazione,
in un atto di crudeltà assoluto verso una dinamica comportamentale che deve
mantenersi sulla soglia dell’ideale. Anche se l’immaginazione procede in un
senso tutt’altro che petrarchesco; o meglio, Gargano è forse l’ultimo
petrarchista in grado di allestire un vastissimo canzoniere amoroso – di un
amore irrealizzabile, per l’appunto, fantasticato – dove la donna riesce ogni
tanto a dismettere i panni dell’angelicità per mostrarsi in tutta la sua
energia sensuale. A patto, però, di restare così sulla carta.
Non sorprende che l’ultima
tranche di questo canzoniere, data alle stampe per Empirìa, si intitoli Diario di un bugiardo.
L’autobiografismo, si sa, è il primo dei grandi travestimenti letterari e
Gargano non viene meno al precetto. Il suo io poetico è una perfetta proiezione
che gli consente libertà inaudite, altrimenti impraticabili; una sorta di
controfigura che può raccontare – e raccontarsi – un’identità multipla e
complessa, votata all’illusione. In questo torna ad essere francese: lo spazio
della pagina diventa automaticamente il luogo del sogno e della sua scrittura,
della sua fugace, effimera materializzazione. Il verso non tiene e non vuole
tenere il ritmo, perché nulla è davvero memorabile: piuttosto si adagia
narrativamente, senza rinunciare al gioco delle rime o anche delle assonanze,
perché è proprio lì, alla fine, che Gargano vuole condurci, in quella sorta di
banda laterale, di colonna fonica, destinata a sorprenderci per un istante e
poi a crollare come una parete senza cemento, perché possa apparire la prossima
figura, il prossimo fantasma dietro la seduzione di un semplice nome. In questo
Diario compaiono anche figure
maschili: poeti, amici, intellettuali, compagni di strada. Un requiem
per il padre chiude il volume. Ancora autoritratti per interposta persona.
Claudio Gargano, Diario di un
bugiardo, Empirìa 2014, e. 12.00.
(Veronika)
Il miele dei baci, Dea mortale,
si tramuta in fiele
appena il tempo riprende la sua
marcia trionfale.
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