Dov’è che comincia il paesaggio
dell’immaginario e finisce il paesaggio reale? E può esistere un paesaggio
reale senza il complemento dell’immaginazione? Ogni paesaggio non esiste forse
perché c’è un soggetto che lo crea mentre lo sta osservando? L’occhio è una
straordinaria macchina dell’invenzione, ci dice ogni teoria del paesaggio, e
paesaggio è l’occhio stesso, elemento senza il quale l’idea di ciò che ci
circonda risulterebbe impossibile. Ed esiste, naturalmente, anche un paesaggio
dell’orecchio, un mondo fatto di ascolti, spesso di rumori, talvolta di voci
sommesse che all’improvviso ci invitano a riconsiderare i nostri percorsi, a
dirigere lo sguardo altrove, a vedere in prospettive non considerate fino a
quel momento. Il poeta moderno, e ancor più quello postmoderno, sa bene quanto
vista e udito congiurino insieme non tanto alla registrazione di un mondo
concreto, referenziale, quanto al rinvenimento di quella fertile e suggestiva
zona di confine tra la percezione dei sensi e la possibilità che il pensiero ci
racconti una dimensione diversa. Lo sa bene anche Tiziano Fratus, forse il più
legato al concetto di paesaggio tra i poeti italiani, dopo le «scritture
vegetali» di Pier Luigi Bacchini. Ma Bacchini, che aveva ereditato una lunga
tradizione di osservazione naturalistica e osservava il mondo come da una fotocellula,
sembra assente dai versi di Fratus, che nascono, piuttosto, quando una
saturazione culturale sposa un’emozione naturale.
L’editore Feltrinelli, che da più
di trent’anni aveva chiuso i conti con la poesia italiana contemporanea, vi
ritorna oggi attraverso l’esperienza degli e-book, all’interno del progetto di
editoria digitale «Zoom». La collana Zoom-poesia, che ha riproposto brevi
antologie di classici al prezzo di 99 centesimi, si apre infatti alle officine
più recenti, ripartendo proprio da Fratus, con Un quaderno di radici. L’uscita è prevista per il prossimo 5
febbraio. Chi conosce l’autore, il suo incessante esplorare il mondo dei boschi
e delle foreste con la passione e la competenza di chi va cercando non solo
radici biologiche ma anche più ampie origini metaforiche, sa bene quanto sia
vasto il suo orizzonte paesaggistico, e direi anche paesologico. Quello di
«radice» è per lui un concetto essenziale, primario, da cui ripartire ogni
volta, ma a patto di riconoscere che questo non deve coincidere con un unico
punto fermo, quanto rispondere a una visione plurima e sfaccettata del mondo
che si osserva e si crea. Questa mobilità di sguardo è evidente nei suoi versi,
nei piccoli effetti di straniamento che provocano in chi legge, nei passaggi
repentini. L’uomo che guarda è un soggetto che in realtà non esiste più: «Siamo
scomparsi senza preavviso / dalle mappe del mondo», scrive Fratus, e dunque la
radice è anzitutto la possibilità di una nuova mappa, o perfino il riconoscere
che di mappe possiamo fare a meno e che forse la scomparsa può configurarsi
come una nuova occasione. «Viviamo… Sanguiniamo… Annulliamo», scrive in una
poesia intitolata Il dio del piombo e
dell’aria, dove il mondo appare «costipato fra la carta e la corteccia»,
tra il proliferare di una cultura autofaga e la corteccia, quell’elemento
autentico che ancora può costituire un elemento di difesa e di riconoscimento
delle proprie autentiche radici. Una delle poesie più riuscite, Dedica al buio, allude anche a questo,
sebbene si tratti solo di uno dei vari percorsi a cui il quaderno di Fratus ci
invita. Ma intanto si può partire da qui, da questo buio che è il contrario del
nulla, pur mancanti della perizia dello speleologo o delle arti magiche del
negromante, per affrontare questa ennesima discesa agli inferi a cui Fratus ci
chiede di non sottrarci.
Tiziano Fratus, Un quaderno di
radici, Feltrinelli, Zoom Poesia, 2015.
Quando ti penso
mi rammarico di non essere
un astronomo
che convive con parole
lunghe e acrobatiche,
sigle fantasmatiche,
ammassi plutocratici.
Mi vergogno
della mia pochezza
in speleologia
e negromanzia,
come una talpa da salotto
cerco un buco
alla base del muro
dove nascondermi
a me stesso.
Tento un rifugio
paracadutandomi
nel più pesante
dei vocabolari,
ma le pagine
non si spalancano.
L’inchiostro è secco.
Il buio è pieno
di verbi graffianti,
di entomi roteanti
di poeti espatriati
e panchine ambulanti.
È l’esatto contrario del nulla.
Eppure basta guardarlo
per
smettere di pensare
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