martedì 2 settembre 2014

Antonino Cangemi su Solstizio

Un'ampia recensione di Antonino Cangemi apparsa oggi su siciliainformazioni.com


Dopo una lunga astinenza durata più di dieci anni, Roberto Deidier torna in libreria con una silloge di poesie, “Solstizio”, edita da Mondadori nella celebre collana de “Lo specchio”.
La raccolta di Deidier, poeta e critico letterario romano docente presso l’Università di Palermo, è molto articolata divisa com’è in diverse sezioni ciascuna dedicata a temi diversi seppure legati da un medesimo filo conduttore. Tale filo conduttore può sinteticamente individuarsi nel senso di inappartenenza del poeta in un universo metropolitano in disfacimento, arido di affetti e di punti di riferimento, ma nel contempo nel desiderio, inappagato, di calore umano, spesso tuttavia schivato.
Da un canto quindi alienazione e solitudine, dall’altro il bisogno di contatto, non solo fugace ed epidermico, tra gli uomini; da un lato l’oscurità con la rinuncia alla vita che a essa si accompagna (‹‹Misuro l’ampiezza del buio invernale/ Fino a toccarlo, fino a farlo mio››, oppure ‹‹A volte vorrei starmene nel letto/ Come un animale estraneo al mondo,/ Confortare l’oscuro mai temuto,/ Fare un poco paura alla paura››), dall’altro la luce che richiama sensuale vitalità ma che più abbaglia e più fa paura. In ciò sembra cogliersi in Deidier un’affinità con Saba quando dolente canta la primavera: ‹‹Primavera che a me non piaci, io voglio/ dire di te che di una strada l’angolo/ svoltando, il tuo presagio mi feriva/ come una lama. L’ombra ancor sottile/ di nudi rami sulla terra ancora/ nuda mi turba; quasi anch’io potessi/ dovessi/ rinascere››. La luce, peraltro, può ancora di più ferire con le sue ombre che proiettano un passato a volte gravido di travagli interiori (‹‹Mi svegliavo con il pudore d’un bambino/ Che ha appena scritto la sua prima poesia››) o che evocano amori passati che non ritornano.
Il senso di vuoto e di angoscioso sbigottimento che pervade l’intera raccolta si coglie nell’esergo della prima sezione “La statua di sale”: ‹‹Come avrebbe potuto non voltarsi…/In sogno erano apparse le valigie/ Dei morti, lasciate in qualche stazione;/ Quelle dei vivi le aveva pensate/ Come un’improbabile carovana/ confusa nella sabbia infinita,/ In cammino verso un’altra città››. Così si apre la silloge quasi a voler richiamare, quale corollario del testo, l’angoscia montaliana di “Forse un mattino andando per un’aria di vetro”.
La solitudine è un altro motivo dominante. Lo rivela soprattutto una sezione centrale nella silloge, “Il secondo trapezio”. Qui vi è il chiaro rimando alla figura del trapezista che compare in uno tra gli ultimi brevi racconti di Kafka, “Primo dolore”. Il trapezista di Kafka vive appartato nella tenda del circo nell’alto del suo attrezzo. La sua esistenza è impegnata totalmente negli esercizi di acrobazia che ripete nella ricerca ossessiva della perfezione, e perciò, non pago dei livelli raggiunti, chiede al suo impresario un secondo trapezio che moltiplichi il grado di difficoltà della sua arte: ‹‹Me lo vidi già scosso dai singhiozzi./ Gli chiesi allora che cos’era accaduto,/ Al suo silenzio tentai una carezza/ E spaventato m’accostai stringendo/ al mio il suo viso e mi bagnò il suo pianto./ Non si calmava: come faccio a vivere/ Solo con questa barra tra le mani?››. Il trapezista è una metafora del poeta che s’isola immerso nel suo mondo di carta e schiva le relazioni nella ricerca ostinata e ascetica dell’armonia dei versi.
Deidier evoca nella raccolta diverse città in cui è vissuto. Ma tra di esse Palermo occupa un posto di primo piano, tanto da dedicarle un’apposita sezione, “Dieci poesie vissute a Palermo”. Perché Palermo, forse perché è la città in cui attualmente risiede più stabilmente? Spiegazione troppo banale per essere credibile. Deidier probabilmente predilige Palermo, città ricca più di altre di fascino e di contraddizioni, perché in essa emergono in modo netto quelle dicotomie che sono al centro della silloge e di cui prima si diceva. A proposito vale la pena citare questi versi che rinviano per il fulminante tratto descrittivo a Sandro Penna, uno dei poeti più cari a Deidier: ‹‹Quando a una certa ora il pomeriggio/ Filtra dalle serrande e con la luce/ Grida allegre, scalpiccio di rincorse,/ Allora puoi pensare: questa è una città››.

La cifra stilistica di Deidier si connota per la limpidezza e la sobria musicalità dei versi, quasi tutti endecasillabi, e, in questa silloge, tutti introdotti dalla maiuscola per sottolinearne, con un espediente classico, l’unicità e compiutezza. Tanto nitore formale dà compostezza alla sofferenza e al travaglio interiore, che si riflette persino nelle figure bibliche a cui l’autore dà voce nella sezione “La fossa dei leoni”. Tra tanti motivi di smarrimento, incertezze, aridità si intravede però nel dialogo con la “Musa”, sezione finale, un incerto spiraglio: ‹‹Forse non tutto è perduto, forse/ Qualche margine resta per parlarci/… Questa nostra invisibile pazienza./ Allora ascolta, ascolta il tramestìo/ Di questi giorni, invita a non alzare/ Le braccia ancora in segno di sconfitta››.

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