Dopo una lunga astinenza
durata più di dieci anni, Roberto Deidier torna in libreria con una silloge di
poesie, “Solstizio”, edita da Mondadori nella celebre collana de “Lo specchio”.
La raccolta di Deidier,
poeta e critico letterario romano docente presso l’Università di
Palermo, è molto articolata divisa com’è in diverse sezioni ciascuna dedicata a
temi diversi seppure legati da un medesimo filo conduttore. Tale filo
conduttore può sinteticamente individuarsi nel senso di inappartenenza del
poeta in un universo metropolitano in disfacimento, arido di affetti e di punti
di riferimento, ma nel contempo nel desiderio, inappagato, di calore umano,
spesso tuttavia schivato.
Da un canto quindi
alienazione e solitudine, dall’altro il bisogno di contatto, non solo
fugace ed epidermico, tra gli uomini; da un lato l’oscurità con la rinuncia
alla vita che a essa si accompagna (‹‹Misuro l’ampiezza del buio invernale/
Fino a toccarlo, fino a farlo mio››, oppure ‹‹A volte vorrei starmene nel
letto/ Come un animale estraneo al mondo,/ Confortare l’oscuro mai temuto,/
Fare un poco paura alla paura››), dall’altro la luce che richiama sensuale
vitalità ma che più abbaglia e più fa paura. In ciò sembra cogliersi in Deidier
un’affinità con Saba quando dolente canta la primavera: ‹‹Primavera che a me
non piaci, io voglio/ dire di te che di una strada l’angolo/ svoltando, il tuo
presagio mi feriva/ come una lama. L’ombra ancor sottile/ di nudi rami sulla
terra ancora/ nuda mi turba; quasi anch’io potessi/ dovessi/ rinascere››. La
luce, peraltro, può ancora di più ferire con le sue ombre che proiettano un
passato a volte gravido di travagli interiori (‹‹Mi svegliavo con il pudore
d’un bambino/ Che ha appena scritto la sua prima poesia››) o che evocano amori
passati che non ritornano.
Il senso di vuoto e di
angoscioso sbigottimento che pervade l’intera raccolta si
coglie nell’esergo della prima sezione “La statua di sale”: ‹‹Come avrebbe
potuto non voltarsi…/In sogno erano apparse le valigie/ Dei morti, lasciate in
qualche stazione;/ Quelle dei vivi le aveva pensate/ Come un’improbabile
carovana/ confusa nella sabbia infinita,/ In cammino verso un’altra città››.
Così si apre la silloge quasi a voler richiamare, quale corollario del testo,
l’angoscia montaliana di “Forse un mattino andando per un’aria di vetro”.
La solitudine è un altro
motivo dominante. Lo rivela soprattutto una sezione centrale nella
silloge, “Il secondo trapezio”. Qui vi è il chiaro rimando alla figura del
trapezista che compare in uno tra gli ultimi brevi racconti di Kafka, “Primo
dolore”. Il trapezista di Kafka vive appartato nella tenda del circo nell’alto
del suo attrezzo. La sua esistenza è impegnata totalmente negli esercizi di
acrobazia che ripete nella ricerca ossessiva della perfezione, e perciò, non
pago dei livelli raggiunti, chiede al suo impresario un secondo trapezio che
moltiplichi il grado di difficoltà della sua arte: ‹‹Me lo vidi già scosso dai
singhiozzi./ Gli chiesi allora che cos’era accaduto,/ Al suo silenzio tentai
una carezza/ E spaventato m’accostai stringendo/ al mio il suo viso e mi bagnò
il suo pianto./ Non si calmava: come faccio a vivere/ Solo con questa barra tra
le mani?››. Il trapezista è una metafora del poeta che s’isola immerso nel suo
mondo di carta e schiva le relazioni nella ricerca ostinata e ascetica
dell’armonia dei versi.
Deidier evoca nella
raccolta diverse città in cui è vissuto. Ma tra di esse Palermo occupa
un posto di primo piano, tanto da dedicarle un’apposita sezione, “Dieci poesie
vissute a Palermo”. Perché Palermo, forse perché è la città in cui attualmente
risiede più stabilmente? Spiegazione troppo banale per essere credibile.
Deidier probabilmente predilige Palermo, città ricca più di altre di fascino e
di contraddizioni, perché in essa emergono in modo netto quelle dicotomie che
sono al centro della silloge e di cui prima si diceva. A proposito vale la pena
citare questi versi che rinviano per il fulminante tratto descrittivo a Sandro
Penna, uno dei poeti più cari a Deidier: ‹‹Quando a una certa ora il
pomeriggio/ Filtra dalle serrande e con la luce/ Grida allegre, scalpiccio di
rincorse,/ Allora puoi pensare: questa è una città››.
La cifra stilistica di Deidier si
connota per la limpidezza e la sobria musicalità dei versi, quasi
tutti endecasillabi, e, in questa silloge, tutti introdotti dalla maiuscola per
sottolinearne, con un espediente classico, l’unicità e compiutezza. Tanto
nitore formale dà compostezza alla sofferenza e al travaglio interiore, che si
riflette persino nelle figure bibliche a cui l’autore dà voce nella sezione “La
fossa dei leoni”. Tra tanti motivi di smarrimento, incertezze, aridità si
intravede però nel dialogo con la “Musa”, sezione finale, un incerto spiraglio:
‹‹Forse non tutto è perduto, forse/ Qualche margine resta per parlarci/… Questa
nostra invisibile pazienza./ Allora ascolta, ascolta il tramestìo/ Di questi
giorni, invita a non alzare/ Le braccia ancora in segno di sconfitta››.
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