venerdì 5 settembre 2014

AILANTO n. 6 - Su Mark Strand







Anche Mark Strand, con Quasi invisibile, è approdato al poemetto in prosa. Sorprende e non sorprende, in un autore come lui; un americano con una densità metaforica europea, ma sempre con quel sostrato di narratività che caratterizza da sempre le migliori officine poetiche al di là dell’Atlantico. Ho letto e riletto questo ricco libretto, sinceramente ammirato per l’inventiva e le bellissime immagini che lo attraversano, ma non ho ancora compreso se la scelta sia formale, di genere, o entrambi; se, in definitiva, la prosa abbia naturalmente sostituito il verso, oppure se siamo di fronte a una vera e propria svolta, a qualcosa di programmatico, a temi che richiedono di essere espressi solo in questo modo. Dietro la varietà delle immagini, infatti, si legge la filigrana dell’opera: questo è un libro che si sviluppa intorno a nuclei tematici – o filosofici, ma resi sempre attraverso immagini: ciò che fa la differenza tra un pensatore e un poeta, per l’appunto - ben leggibili. Tutto quello che si racconta in queste micro-sequenze è un paradosso, o è agito, portato da una realtà paradossale che si affaccia, insieme al soggetto che la osserva, sul baratro del nulla. Ma non avverto in queste pagine una tensione nichilistica; si ha invece la netta sensazione che quel nulla sia come corteggiato, e che infine risulti abitato come la verità che gli si oppone.  Che sia, insomma, come il punto dove un arcobaleno sembra toccare terra.
Ci sono due modi per appropriarsi della prosa, in poesia. Baudelaire, che ne è stato il padre, arriva al poemetto in prosa per una sorta di deflagrazione del verso. Ai tableaux dei Fiori del male sovrappone una cornice, che è anche e soprattutto percettiva, più ampia, e nasce Lo Spleen di Parigi. Ad Arsène Houssaye scrive che la prosa gli è divenuta una vera e propria ossessione, un miracolo, una plastica «duttile e nervosa» che meglio accoglie le pulsioni di anima, sogno e coscienza, e il movimento autentico delle grandi realtà metropolitane. È, per lui, la forma della modernità, quando lo sguardo esplode, e gli altri sensi con esso, e infine esplode anche il verso. Ma può accadere anche un collasso della forma. In Strand il verso sembra per l’appunto imploso: il poeta emana tenebra e trova la notte (La malinconia sepolta del poeta); fantasmi della memoria e memorie fantasmatiche si scambiano i ruoli in un abilissimo gioco delle parti; il cuore, vuoto, continua a vuotarsi del vuoto, e in questo modo lo inventa: il soggetto se ne sta «seduto al buio, a fantasticare, e il vuoto si accresce». Un vuoto materico, dunque, un’ossessione tangibile: sono le stesse pagine, che proprio perché vuote si lasciano fissare per ore.
Tutto il linguaggio è proteso alla creazione del paradosso. È lo stile dell’incertezza e del dubbio, sorretto da molti «forse», da «si dice», da ammissioni di non sapere, di non conoscere cause, ed è ancora la lingua a determinare ruoli e identità (si rilegga il testo d’avvio, dove un banchiere, che potrebbe anche essere un pastore, entra nel bordello delle cieche, ma l’interlocutrice potrebbe essere una vedova annoiata e ben vedente): nel discorso tra due anziani sposi «per ogni cosa che dice c’è dell’altro che non dice», dietro a ogni parola ce n’è immancabilmente un’altra, anzi, forse ve ne sono centinaia, e sta al lettore trovarle, pensarle. Ma il pensiero stesso, in queste pagine, è messo a durissima prova: è solo «neve silenziosa» che non attecchisce, sì che ogni istante viene ingigantito al punto da sembrare vero. Un certo sofismo eleatico aleggia su questi poemetti, ma senza alcuna pretesa sistemica: lo sguardo resta sempre quello del poeta, che raccoglie intorno a sé le immagini più strane e inusitate, con un ritmo quasi kafkiano, per farci cogliere quanto il presente sia sempre così distante da noi. Ottima prova di traduzione, come di consueto, di Damiano Abeni.


Mark Strand, Quasi invisibile, Mondadori 2014, e. 16.

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