venerdì 16 dicembre 2022

AILANTO n. 70 - su Vivian Lamarque

 



Con la consueta, pensosa leggerezza che segna il suo tracciato poetico, Vivian Lamarque congeda per lo Specchio mondadoriano questa sua ultima prova, L’amore da vecchia, che a dispetto del titolo, come rileva Maurizio Cucchi nel risvolto, si presenta con versi «vivaci e freschissimi». Vorrei subito fugare un possibile equivoco, a proposito di questo titolo apparentemente contraddittorio, quasi scandaloso, fuori norma, perché l’amore di cui si parla in queste poesie trascende la dimensione puramente sentimentale o fisica per apparire piuttosto in tutta la sua ampia e distaccata saggezza. C’è l’amore per la natura, per il paesaggio anche urbano, per le figure note o sconosciute che lo popolano e lo attraversano, incrociando lo sguardo dell’autrice; c’è l’amore famigliare, rivolto a personaggi che appartengono alla storia privata di Lamarque; c’è anche - come sogno, proiezione, desiderio che esprimono una vitalità mai sconfessata – l’amore che dalla gioventù e dalla maturità tracima senza soluzione di continuità in quell’estrema stagione che ci lascia inermi davanti al pensiero della morte.

Tutta questa rete di immagini e temi, ancora una volta, si esprime e si risolve non senza ironia, che è sempre una forma della presa di distanza; dietro la scanzonata baldoria delle rime, dietro i ritmi da arietta che hanno più volte fatto riecheggiare i nomi di Saba e ancor più di Penna, traspare in realtà un sostrato ben diverso, e a guardare meglio la forma di queste ultime poesie si slabbra, rinuncia al rigore della tradizione, quasi esplode senza più contenere il mondo lirico che in quella stessa forma cercherebbe una sua giustificazione. Non è un caso che, più che nei libri precedenti, quella tradizione che dai classici approda nel cuore del Novecento sia qui esibita senza camuffamenti, quasi a ribadirne la possibilità di rottura, non in senso eversivo ma correttivo: «Quale amore in queste poesie?», si domanda il poeta sulla soglia del libro, e l’elenco è invero vasto, fino a trasformare quello stesso amore in una specie di sapienziale understatement. Insomma, c’è coerenza con quanto Vivian Lamarque ci ha finora consegnato, ma c’è anche un punto di svolta, se «l’immaginazione non riesce più a immaginare /ora procede per una strada oscura» (Lugete o Veneres).

In questo sentiero oscuro, che prefigura un Ade sulla cui soglia intravediamo perfino la Parca (Filo da ricamo), l’autrice, armata soltanto della sua matita affilata, cerca di trattenere sul foglio la «fuggevole vita» le cui rappresentazioni si proiettano come su uno schermo cinematografico. Una intera, riuscitissima suite, si intitola proprio Come nel film. Una vorticosa carrellata, che da Lamorisse arriva fino al recente Nostalgia, interpretato da Favino per la regia di Mario Martone, ripercorre un settantennio di titoli esemplari attraverso cui Lamarque ricostruisce per interposta immagine un percorso esistenziale, come in un viaggio sentimentale. E proprio come una pellicola la poesia si lascia svolgere e mai del tutto riavvolgere, in questi testi che restano spesso aperti con domande di una tenerezza lancinante, di una verità disarmata.

 

Vivian Lamarque, L’amore da vecchia, Mondadori 2022, e. 18.00.

 

La lampada

 

Quella sera quel gesto

di spegnere la luce

allungando un poco

verso la lampada

la mano

quella sera che da sola

si spegnerà la nostra luce

che ne sarà dell’ultimo

pensiero? Resterà lì

sopra il letto sospeso?

O scalerà la luna

ove quel che qui si perde

là si raduna?

martedì 13 dicembre 2022

Nero residuo

Finalmente pubblicato. Un lungo progetto, che risale al 2017-2018; l'incontro con il disegno in tutta la sua inquietudine e drammaticità; la scrittura quasi febbrile nel giro di pochi giorni, l'intarsio tra due linguaggi, una pittura che si fa poesia e una poesia che si fa pittura, come suggerisce Lorenzo Canova nella sua densa  introduzione. Grazie a Laura Fortin per tutte le suggestioni che mi lascia ogni volta che m'imbatto nel suo segno; grazie a Vasco Scandurra che ha voluto questo libro. È bello, terribile, necessario, ogni tanto, uscire da sé.







lunedì 12 dicembre 2022

A Salerno per Gatto e Pasolini. Parlando anche di me.

Mercoledì 14 sarò a Salerno, ospite della Fondazione Gatto e dell'Università, che hanno organizzato un bel ciclo di incontri su Gatto e Pasolini. Alle 19.30, al Teatro Ghirelli, si parlerà anche dei miei ultimi lavori, All'altro capo e Nero residuo.




sabato 3 dicembre 2022

AILANTO n. 69 - su Paolo Del Colle







La poesia di Paolo Del Colle, romano classe 1957, segue fin dagli esordi con Gemme apicali un tracciato rappresentativo dei fragili rapporti tra soggetto e realtà, fino a disegnare in quest’ultimo lavoro, Stato di insolvenza, una vera e propria fenomenologia dell’autopercezione. Ha scritto bene Arnaldo Colasanti, presentando quest’autore nell’antologia Braci, di una «vita che è soltanto un continuo fisico morire». Il titolo stesso accompagna il lettore, facendolo addentrare in una fitta trama di senso, che spazia dal linguaggio giuridico (l’insolvenza dei debitori), a quello della chimica (la condizione di ciò che non può essere sciolto, diviso, disperso, al contrario di un titolo come Composita solvantur di Fortini), secondo una metafora esistenziale che si accavalla tra due differenti domini. E come ogni metafora che si estenui in un racconto trascende nell’allegoria, anche qui le poesie rappresentano le tappe di un’unica, compatta narrazione dove l’io e l’altro, l’io e la sua ombra, l’io e la sua paradossale irrealtà circoscrivono un territorio fragile, dove ciò che solamente può accadere è l’evidenza del loro contrasto: ciò che di residuo la vita insiste a chiedere al soggetto e ciò che il soggetto non può cedere - perché il suo contesto è per l’appunto segnato dalla labilità - sono i confini ontologici entro i quali prende forma lo scarto del probabile, del non vissuto, di ciò che avrebbe potuto essere, dell’essere che fugge irrimediabilmente dentro un tempo che è anche il tempo stesso del pensiero.

Del Colle predilige in queste ultime prove una versificazione quasi nervosa, adottando la misura breve, che culmina nei punti cruciali del suo discorrere nella forma canonica dell’endecasillabo, come a distendere, o a voler spiegare meglio (che è, etimologicamente, la stessa cosa), la tensione drammatica che i suoi contrasti esprimono. Anche quello che per molta poesia costituisce un asse portante, la memoria, è qui reso «fragile», poiché «quanto è diverso / ciò che accade / per un senso o l’altro»; i giorni si riducono a una «resa torpida». Le stanze, i corridoi che il soggetto percorre rimandano a una domesticità ingannevole, dove gli specchi restituiscono «smorfie», pericolose anamorfosi di una minima geografia familiare che si osserva tra ombre, bui, penombre, in una sorta di claustrofobia della mente e dei sensi («Il giorno si accende / e spenge nel corridoio»), di reclusione percettiva. Da questo brainframe volutamente ristretto, da questa prospettiva chiusa, l’io racconta il tragico di una diffrazione («una promessa da rispettare / che sempre meno / coincideva con la vita»): come se da un’esatta, quanto immaginaria geometria di Clerici si affacciasse, all’improvviso, il ghigno di un Bacon.

Insolvenza richiama il suo contrario “dissolvenza”, e di dissolvenze è intessuta la lingua di queste nuove poesie di Del Colle, scandite nei tre tempi delle sezioni e di un explicit in forma di post-scriptum. «Quanto dimentichiamo / è tutto ciò che resta», ma su uno sfondo difficile da illuminare, o modernamente intermittente, dove solo qualche rapido bagliore consente la feroce lucidità dell’autocritica, dalla «improvvisata soglia / di un arbitrario altrove». Anche i nomi propri dell’ultima parte del libro non scandiscono identità o ricordi, ma si assestano nella loro precarietà, a rammentarci che la prima illusione affettiva con cui siamo chiamati a fare i conti è proprio l’insieme delle coordinate, spazio e tempo, con cui invano insistiamo ad addomesticare - e a scrivere - la nostra esistenza.

 

Paolo Del Colle, Stato d’insolvenza, Amos Edizioni 2022, e. 12.

 

 

anche i nomi hanno uno statuto

provvisorio

un grumo amorfo

di pigre circostanze

accumulate nel tempo

che si può asportare

così non ci voltiamo

se qualcuno

ci riconosce o ci chiama

per saltare il nostro turno

mercoledì 12 ottobre 2022

Dal 20 al 22 ottobre a Palermo per Pasolini

Dal 20 al 22 ottobre si terrà a Palermo il Convegno internazionale Il sogno del centauro. I sovvertimenti di Pasolini tra pedagogia e linguaggi, organizzato dalla cattedra di Letteratura italiana dell'università, con ampia collaborazione di istituzioni. Il convegno rientra tra le manifestazioni previste per Pasolini100, la ricca serie di iniziative avviate in occasione del centenario dalla nascita del grande autore.





giovedì 6 ottobre 2022

Daniela Baroncini su «All'altro capo»

Lo scorso 10 settembre All'altro capo ha ricevuto il Premio Pascoli 2022. Pubblico qui la motivazione della Presidente della giuria, la collega Daniela Baroncini dell'università di Bologna e con l'occasione la ringrazio delle sue parole così precise.




Il Premio Pascoli di Poesia 2022 viene assegnato a All’altro capo (Mondadori, 2021) di Roberto Deidier per il suggestivo viaggio poetico nella memoria, nel mito, nell’arte, nei territori dell’evanescenza tra realtà e dissoluzione, attraverso parole di ombra e di luce che esplorano paesaggi intimi e al tempo stesso metafisici. Parole nate dal dolore che colgono la profondità dietro il velo malinconico di epifanie occasionali, dettagli quotidiani, immagini effimere, rappresentando l’assenza tra sogni, miraggi, apparizioni e sparizioni. Parole di luce e d’aria che convivono con il vuoto e indagano il senso del non senso, con la speranza invincibile di “un’accidentata felicità, di sorprese / non segnalate”. La scrittura limpida, tersa, nitida traduce perfettamente la “lucida sostanza” del nulla, attraversato dalla parola-luce che contrasta strenuamente il non essere. Questa scrittura colpisce inoltre per l’esercizio costante dell’eleganza distillata attraverso una raffinata operazione di sprezzatura. Ne risulta un timbro unico anche per la precisione delle parole, il rigore e l’etica della forma, ad affermare in modo del tutto originale il valore della poesia come costruzione contro il dilagare del nulla. In questo modo la parola diventa esperienza conoscitiva dell’io, della realtà e dell’oltre tra speranze e disincanti, trasmettendo al lettore i brividi della grande poesia.

 




lunedì 26 settembre 2022

AILANTO n. 68 - su Jericho Brown

 


La poesia di Jericho Brown, di cui possiamo leggere in tradizione italiana la terza raccolta vincitrice del premio Pulitzer 2020, si ispira fin dagli esordi a tematiche sempre urgenti, come la violenza razziale, vissuta sia sul piano sociale e politico, sia su quello più domestico, famigliare. The Tradition, in italiano La Tradizione, con quella maiuscola conservata che rimanda a un’altra maiuscola non meno tragica, la Storia, è un libro diviso in tre parti strettamente dialoganti tra di loro. La sua compattezza è sia nelle immagini e negli argomenti che veicolano, sia nelle scelte formali. Brown, nato in Louisiana nel 1976, non è il poeta eversivo che scardina la tradizione poetica, anzi vi attinge pienamente per innovarla dal suo interno. Come per la maggior parte dei poeti di lingua inglese, i suoi versi hanno mantenuto la maiuscola, a rendere più mobili, esagitate le sue frequentissime inarcature. Sono almeno due le tradizioni che percorrono la scrittura di Brown: quella americana, che ha i suoi avvii in Whitman e Dickinson, per giungere – attraverso la grande poesia degli anni Cinquanta e Sessanta (Lowell, Plath e Sexton) – fino alle più recenti esperienze di Rich e Glück e testimoniare così l’attenzione costante di questo autore verso la poesia delle donne. Non secondaria è la presenza della tradizione afroamericana, più legata ai temi civili, così da imbatterci, per via diretta o per citazione, in Gwendolyn Brook, James Baldwin, fino ai poeti della Harlem Reinassance, le cui novità formali non hanno mancato di lasciare tracce più che visibili.

Proprio la forma è un tratto imprescindibile, e non accessorio: è il motore stesso di un racconto sempre teso, che prosegue secondo griglie precise e spesso sperimentali (come nel caso del duplex o del bop, secondo un assetto che tende non a negare ma a innovare), o secondo riprese della tradizione, per esempio il sonetto, privato della sua più consueta livrea lirica e sentimentale e tradotto in una contestualizzazione ben più drammatica, diventando una forma di protesta. Anche in questo senso, come scrive Brown, «A poem is a gesture toward home», «Una poesia è un gesto verso casa». Ed è un senso binario, che ci riporta da un lato alla violenza razziale, ai soprusi, dall’altro a una dimensione che si vorrebbe sicura, a garanzie sociali ancora ben lontane dall’imporsi. Ha ragione la traduttrice Antonella Francini, c’è un incessante pianto delle madri che percorre il libro. E ci sono figure che appartengono ormai a una triste sequela di assassinii e linciaggi. Così la Tradizione, riletta analiticamente, appare al poeta come il luogo dove mascherare il male e l’abuso di potere, a partire dal ratto di Ganimede, considerato per quel che è, un atto di stupro. Brown asserisce di non provare paure «di fronte / A conflitti così antichi che sembrano / Non contare nulla davvero» ma la sua critica alla Tradizione non gli impedisce di ricercare sprazzi di bellezza anche laddove a dominare è ben altra verità, rompendo così il nesso romantico a cui eravamo abituati.

 

Jericho Brown, La Tradizione, a cura di Antonella Francini, Donzelli 2022, e. 14.00.

 

Duplex

 

Comincio con amore, sperando di finirla lì.

Non voglio lasciare un cadavere malandato.

 

Non voglio lasciare un cadavere malandato

Pieno di farmaci che vanno a male nel sole.

 

Alcuni miei farmaci vanno a male nel sole.

Ad alcuni di noi non serve l’inferno per essere buoni.

 

Ai più bisognosi serve l’inferno per essere buoni.

Quali sono i sintomi della tua malattia?

 

Ecco un sintomo della mia malattia:

Gli uomini che mi amano sono uomini a cui manco.

 

Gli uomini che mi lasciano sono uomini a cui manco

Nel sogno dove io sono un’isola.

 

Nel sogno dove io sono un’isola,

Divento verde di speranza. Vorrei finirla lì.