sabato 3 dicembre 2022

AILANTO n. 69 - su Paolo Del Colle







La poesia di Paolo Del Colle, romano classe 1957, segue fin dagli esordi con Gemme apicali un tracciato rappresentativo dei fragili rapporti tra soggetto e realtà, fino a disegnare in quest’ultimo lavoro, Stato di insolvenza, una vera e propria fenomenologia dell’autopercezione. Ha scritto bene Arnaldo Colasanti, presentando quest’autore nell’antologia Braci, di una «vita che è soltanto un continuo fisico morire». Il titolo stesso accompagna il lettore, facendolo addentrare in una fitta trama di senso, che spazia dal linguaggio giuridico (l’insolvenza dei debitori), a quello della chimica (la condizione di ciò che non può essere sciolto, diviso, disperso, al contrario di un titolo come Composita solvantur di Fortini), secondo una metafora esistenziale che si accavalla tra due differenti domini. E come ogni metafora che si estenui in un racconto trascende nell’allegoria, anche qui le poesie rappresentano le tappe di un’unica, compatta narrazione dove l’io e l’altro, l’io e la sua ombra, l’io e la sua paradossale irrealtà circoscrivono un territorio fragile, dove ciò che solamente può accadere è l’evidenza del loro contrasto: ciò che di residuo la vita insiste a chiedere al soggetto e ciò che il soggetto non può cedere - perché il suo contesto è per l’appunto segnato dalla labilità - sono i confini ontologici entro i quali prende forma lo scarto del probabile, del non vissuto, di ciò che avrebbe potuto essere, dell’essere che fugge irrimediabilmente dentro un tempo che è anche il tempo stesso del pensiero.

Del Colle predilige in queste ultime prove una versificazione quasi nervosa, adottando la misura breve, che culmina nei punti cruciali del suo discorrere nella forma canonica dell’endecasillabo, come a distendere, o a voler spiegare meglio (che è, etimologicamente, la stessa cosa), la tensione drammatica che i suoi contrasti esprimono. Anche quello che per molta poesia costituisce un asse portante, la memoria, è qui reso «fragile», poiché «quanto è diverso / ciò che accade / per un senso o l’altro»; i giorni si riducono a una «resa torpida». Le stanze, i corridoi che il soggetto percorre rimandano a una domesticità ingannevole, dove gli specchi restituiscono «smorfie», pericolose anamorfosi di una minima geografia familiare che si osserva tra ombre, bui, penombre, in una sorta di claustrofobia della mente e dei sensi («Il giorno si accende / e spenge nel corridoio»), di reclusione percettiva. Da questo brainframe volutamente ristretto, da questa prospettiva chiusa, l’io racconta il tragico di una diffrazione («una promessa da rispettare / che sempre meno / coincideva con la vita»): come se da un’esatta, quanto immaginaria geometria di Clerici si affacciasse, all’improvviso, il ghigno di un Bacon.

Insolvenza richiama il suo contrario “dissolvenza”, e di dissolvenze è intessuta la lingua di queste nuove poesie di Del Colle, scandite nei tre tempi delle sezioni e di un explicit in forma di post-scriptum. «Quanto dimentichiamo / è tutto ciò che resta», ma su uno sfondo difficile da illuminare, o modernamente intermittente, dove solo qualche rapido bagliore consente la feroce lucidità dell’autocritica, dalla «improvvisata soglia / di un arbitrario altrove». Anche i nomi propri dell’ultima parte del libro non scandiscono identità o ricordi, ma si assestano nella loro precarietà, a rammentarci che la prima illusione affettiva con cui siamo chiamati a fare i conti è proprio l’insieme delle coordinate, spazio e tempo, con cui invano insistiamo ad addomesticare - e a scrivere - la nostra esistenza.

 

Paolo Del Colle, Stato d’insolvenza, Amos Edizioni 2022, e. 12.

 

 

anche i nomi hanno uno statuto

provvisorio

un grumo amorfo

di pigre circostanze

accumulate nel tempo

che si può asportare

così non ci voltiamo

se qualcuno

ci riconosce o ci chiama

per saltare il nostro turno

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