sabato 24 agosto 2024

AILANTO n. 74 - su Marco Caporali

 




C’è sempre stata una luce particolare, nei versi di Marco Caporali, fin da quelli che segnarono il suo esordio nel 1991, con un volume presentato da Elio Pagliarani e premiato con il Mondello Opera prima. Ha ragione l’anonimo estensore del risvolto di copertina di questa nuova raccolta, Il borgo dell’accoglienza, che appare per le storiche Edizioni Il Labirinto (quelle legate all’importante rivista «Arsenale», nei lontani e vivaci anni Ottanta della capitale, per intenderci), a cui oggi viene offerta nuova linfa: è una luce «doppia», ora nordica, ora mediterranea, che disegna i paesaggi della biografia di questo poeta, tra le lande danesi e le asperità del nostro Meridione. Sono versi di assoluto rigore, precisi, talvolta cesellati con la sapienza di un trobar clus che non allontana il lettore, mentre cerca di irretirlo, di coinvolgerlo nel rebus delle immagini, nel loro accavallarsi; una strenua volontà comunicativa muove infatti la poesia di Caporali, sotto la sua apparente difficoltà, ma attraverso una scansione della realtà osservata e percepita da cui il verso sembra naturalmente derivare. È come se la poesia, per questo autore, non fosse soltanto un bisogno espressivo, il suo modo speciale di guardare alle cose del mondo e di reinventarle per noi; la poesia è piuttosto un brainframe, una cornice sensitiva e insieme mentale, un filtro attraverso cui la realtà vissuta si riassume nel pieno della sua significazione.

Caporali è ormai un poeta di lungo corso, sebbene la sua sia la figura di un autore appartato, che ha infine scelto di condurre i suoi giorni distante dai ritmi confusi di una città difficile come Roma. E discrete sono anche le sue apparizioni in volume: ben dieci anni trascorrono da Il mondo all’aperto a Il silenzio venatorio (2001), a cui hanno fatto seguito altri tre libri: Alla fine del solco (2007), Tra massi erratici (2013), La vita inoperosa (2019). Così, a ripercorrere nel loro susseguirsi queste tappe, una decisa coerenza traspare, nel conio delle immagini, nel dettato, sempre così teso. La vita che le sue poesie disegnano e ci restituiscono è davvero scandita dalla luce, il vettore che dà forma al mondo lirico di Marco Caporali e lo sostanzia, lo accende con tutti i riflessi del pensiero. Ma per l’appunto, non è mai una luce della stessa specie. Con particolare evidenza Il borgo dell’accoglienza  ci pone di fronte alla dualità giustamente rilevata nel risvolto; così, se la prima sezione è interamente abitata da tonalità nordiche, la seconda e la terza già volgono al sole romano, con una bella istantanea della casa di Valentino Zeichen, o più avanti nel ricordo delle serate trascorse in compagnia di Carlo Bordini a San Lorenzo; ed è luce ora estiva, ora invernale. Ma più ci avviviamo alla fine di questo libro, più la luce aspra del sud vuole abbagliarci, ma non per respingerci, al contrario per dare risalto – come nella lunga poesia che intitola il libro e da sola costituisce la quarta sezione – a un’armonia (sociale, della natura, che nella sua amarezza, leopardianamente, «il suo consenso nega», o del paesaggio tutto) ancora possibile, che «divampa […] tra la miseria delle case». Ecco che lo scarto, l’eccezione diventano il principio di una realtà diversa. Allora, se provassimo a definire il reticolo tematico che muove queste nuove poesie, sotto la luce che le manifesta per noi, potremmo in definitiva ascriverlo a ciò che gli antichi chiamavano «cura». Invano cercheremmo questo termine tra i versi, eppure ne cogliamo i segnali nella potente corrente affettiva che li attraversa, dal principio alla fine: cura di chi o ciò che è andato per sempre o resta, almeno nella dimensione in cui il poeta può frasi conservatore, custode.

 

Marco Caporali, Il borgo dell’accoglienza, Il Labirinto 2024, e. 10.

 

Qualcuno che ad un tratto ti riporta

dove ti eri perduto, in una lacuna

della memoria, o laddove un incerto

ricordo si rischiara, qualcuno che ha cara

la tua immagine e la serba nella sua custodia

del tempo in cui ci si lasciava andare

o così si voleva credere, alcuni

piantati fin da allora nella terra, altri vaganti

cupidi e timidi, da lì comunque

destinati a fiorire

se in un incontro fortuito qualcuno li chiama.

 

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