Misurare il tempo vuol dire conoscerlo veramente? Saperne la direzione inesorabile rappresenta già un esorcismo contro la morte? In Linea intera, linea spezzata, il suo ultimo libro edito nello Specchio mondadoriano, Milo De Angelis converte le immagini tradizionali del tempo come vettore in una dimensione di silenzio e di annullamento; le stesse categorie di “intero” e di “spezzato” sembrano messe in discussione, in una sorta di geometria esistenziale a cui manca inevitabilmente un punto di origine, la prospettiva in cui incorniciare la presenza di un trauma e di un dolore, che aleggiano sul quotidiano senza il peso concreto della loro genesi, ma pervadendo ogni cosa. È così che il «tutto» (il termine forse a maggiore ricorrenza nella raccolta), il “grande tutto” di matrice biblica può tramutarsi nel «grande niente» che emerge da questo scavo notturno del soggetto nelle sue peregrinazioni ad ora insolita, mettendolo ancora una volta di fronte alla grande antagonista.
Se le cose stessero semplicemente così, ci saremmo imbattuti in una dichiarazione di explicit, di cupio dissolvi in un tempo anagrafico segnato dalla stanchezza; eppure quella stessa stanchezza, che è il risultato di un lungo confronto agonistico, più che alla discesa verso la morte lascia pensare a una sconfitta, a un arrendersi all’assenza di quel punto originario che più si mette a fuoco e più si sottrae, consumando energie vitali, indispensabili, e insieme nutrendo di senso tutto l’arco di un’esistenza, dalle memorie adolescenziali fino agli eventi più prossimi. La spinta del ricordo nutre tutte queste nuove poesie di De Angelis, che recano la chiara matrice mnestica di una rievocazione di ombre; ma queste non appaiono in un possibile catalogo di destini, piuttosto intervengono a definire l’identità stessa del soggetto che le ha richiamate da un passato indistinto, che solo qualche dettaglio minimale può – e non sempre – aiutarci a riconoscere.
Tra l’«oceano dell’infanzia» e il «cimitero della tua stanza» si stende tutta questa palude autobiografica, senza un confine preciso, «tra un nulla e l’altro nulla»; ciò che rende anche il presente un teatro di spettri e miraggi, dove in uno scenario urbano e suburbano perfettamente coerente con i paesaggi a cui De Angelis ha abituato i suoi lettori, la notte diviene la quinta necessaria al manifestarsi di ombre e memorie, consentendo pericolosamente al silenzio di dilatarsi fino a invadere il margine stesso di dicibilità della parola, il suo scolpire la sconfitta. Ne trapela, qui e là, un sentimento di vergogna, che si assimila, in sede di poetica, a quel tipico procedere per baluginii e frammenti che da sempre segna la scrittura di questo poeta, ancora saldamente collocato in quel solco della modernità dove la visione del tutto diventa accecamento, ferita: «L’intero ti fa sanguinare». Così, nel culmine di questo vagare notturno, di questo viaggio senza meta, appare un’ombra non così singolare tra quelle che compongono la costellazione di autori a cui De Angelis ama riferirsi: quella di Gottfried Benn, a ricordarci il sussurro di «una parola / prossima al nulla».
Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata, Mondadori 2021, e. 16.00
Bon dodo
Bon dodo, bon dodo, bon dodo, ti dicevano
alle nove di sera ma non potevi
dormire e troppo forte risuonavano le campane
nel cimitero della tua stanza e tu hai imparato subito
che i morti non restano fermi, entrano nel sonno
di ogni bambino oh quanta terra sparsa sul cuscino
quanti baci di puro spavento, quanta neve
sulle lenzuola, quante volte
si accartoccia l’albero del noce, quante volte.
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