Il nuovo libro di Maria Clelia Cardona s’intitola I giorni della merla. Lo pubblica Moretti & Vitali, nella collana a cura di Paolo Lagazzi, Stefano Lecchini, Giancarlo Pontiggia. Proprio quest’ultimo, nel risvolto, scrive che la raccolta «coglie il lettore sulla soglia, ambigua e incerta, in cui l’inverno sembra toccare il culmine del gelo e della desolazione, e insieme annunciare l’avvento di una nuova primavera». Quelli della merla, nella tradizione popolare, sono i giorni del freddo più intenso, ma anche del giro di boa verso la nuova stagione. Sono uno spazio anfibio, una terra di nessuno; sono un perfetto correlativo oggettivo (Montale si affaccia più di una volta da questi versi, in certi avvii, in alcuni fraseggi) di quello stato di sospensione, se si vuole di epoché (ancora Montale) in cui le cose sembrano manifestarsi in una loro improvvisa e imprevista autenticità e i significati a lungo inseguiti finalmente si decantano.
Ha ragione quel lettore acuto che è Pontiggia, queste nuove poesie sono scritte come sulla soglia di un limbo e l’immagine del titolo ben rappresenta la tensione, la spinta che le tiene tutte insieme in una loro speciale compattezza. «Incerti così sono i confini / fra noi e gli astri», scrive l’autrice a proposito del tempo, quello ordinario, quello delle nostre liturgie quotidiane, fatto di «abbagli», segnato dall’inganno. Cardona ha scelto una precisa prospettiva da cui osservare e da cui esprimersi, consapevole della propria dislocazione di fronte a una realtà cangiante (ci sono riferimenti al mondo virtuale della rete, alle sue strane dinamiche sociali) e altrettanto dislocata. La poesia che riflette su se stessa, come nei versi dedicati ai poeti (memorabili quelli per Dante e per Pasolini), assorbe su di sé e fa propria quell’arte dello stare altrove, quel cercare incessantemente il punto in cui la realtà trova nel verso il suo calibro musicale, la restituzione di un ritmo che cela in sé un senso possibile: «I passi allora / ti portarono altrove», è detto a proposito di Dante. Quanto a Pasolini, ci si chiede come avrebbe reagito, oggi, davanti ai «moderni Accattoni», come se, a ben vedere, ci fosse tra il passato e il presente un’indubbia continuità, un’intima staffetta di dolenti invarianti, ma anche di punti di fuga, di veloci felicità.
C’è sempre, nella scrittura di Maria Clelia Cardona, quel filo di malinconica sapienza, di distillata saggezza che la frequentazione dei classici concede a chi impara l’arte del distacco. Non a caso il primo libro era intitolato Il vino del congedo. I «poeti elefanti» hanno il passo pesante di Saturno, si misurano con l’imperfezione e la finitudine, come osserva Marco Vitale nella densa postfazione. Non sorprende quindi che il libro si apra con un epicedio, con un ricordo della figura materna colta nella sua ultima vecchiaia e quindi nel momento del saluto estremo; e ancora non sorprende come, in perfetta simmetria, verso la fine del libro ci venga incontro un’altra figura femminile, amicale, in cui possiamo riconoscere la poetessa e americanista Angela Giannitrapani. Potrebbero essere icone protettive e invece, nel loro interno dibattersi, incarnano nella loro stessa esistenza quel luogo ambiguo, «grigio», in cui il canto della merla denuncia il massimo rigore invernale, e intanto annuncia la certezza di un’altra primavera.
Maria Clelia Cardona, I giorni della merla, postfazione di Marco Vitale, Moretti & Vitali 2018, e. 13.00.
Dopo i giorni del canto la merla scompare
come a nascondere il grigio, lo stranito amore
del buio nell’età dei colori –
altri amanti inglorieranno primavera,
dietro le quinte c’è attesa
che la festa cominci.
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