Da
dove viene la forza spiazzante dei versi di Eleonora Rimolo, dove ha saputo
forgiare il loro scoppiettante rigore, costringendoci a entrare in un vero e
proprio caleidoscopio di metafore, di immagini che rovesciano il nostro senso
abituale delle cose? In questa Temeraria
gioia (così, senza alcuna preoccupazione del rischio, né dell’autorevole
citazione oraziana, e neppure di esibire, fin dal titolo, le corde ossimoriche
della sua ispirazione), questa giovane autrice, nata nel 1991, percorre
territori ambigui e infidi come quelli dell’essere, dell’eros, della stessa
scrittura, disegnando un paesaggio in perenne moto verso la sua caducità, la
sua finitudine, la sua morte. La presenza della morte è continua, nelle poesie
di questo libro; e il suo pensiero, o il suo passaggio, definiscono
davvero «temeraria» ogni pulsione di possesso (forse è questa la declinazione,
il significato autentico della «gioia») che non si pieghi, per l’appunto, alle
necessità della poesia. Eleonora osserva poeticamente il mondo, fa accomodare i
suoi lettori tra il presente e il passato remoto, i due tempi visibilmente più
frequentati in questi versi; ovvero tra il commento e il ricordo, tra
l’esperienza e il pensare l’esperienza.
Tra
questi due poli, tutt’altro che scontati, si agita un microcosmo poetico, fatto
di labili, improvvise apparizioni, entrate in scena, piccoli colpi di sorpresa.
Sono accenni che testimoniano, a dispetto della ricchezza retorica, della
potenza delle immagini e del dettato, una poetica tutto sommato votata alla
parsimonia, nel senso dell’essenziale. Non a caso, neppure dopo un mese
dall’apparizione del libro, Rimolo è tornata sui suoi versi, congedando questa
«seconda versione aggiornata». Non c’è bisogno di dire tutto, o di dire troppo:
questo trobar clus, che risente con
evidenza dichiarata dell’influsso di un poeta come Milo De Angelis, a cui mi
sentirei di aggiungere Amelia Rosselli, ci restituisce un ermetismo di ritorno
che poggia su un indiscusso gradiente orfico. I segnali ci sono tutti, perfino
il «porto segreto» da cui non si riesce a salpare. Ma – questo è il merito –
non si tratta di un orfismo di maniera. Eleonora Rimolo sa costruire una casa
solida, circoscrive, identifica un territorio espressivo più che legittimo. E
il mito, la cui presenza viene spesso a chiudere i testi, soprattutto nella
prima parte del libro, non è un suggello facile, un modo come un latro per
terminare il discorso, ma al contrario apre a nuove, inaudite dimensioni, che
creano sì un vortice di echi letterari, e insieme evocano quell’altrove dove la
gioia è un «bordo tagliente», dove si può romanticamente naufragare.
Così,
rifuggendo le tentazioni e le lusinghe di un «tu tentacolare», forte di una
gioventù ancora in grado di tenere alte le tensioni, e di una maturità che sa
contenerne i picchi espressionistici per conservare la verità di ogni dramma,
Rimolo fa di questo «cumulo sciolto di storie» una materia ancora viva, la cui
«violenta gratitudine di morire» si traduce nella «grazia infinita / del
finire». Dolente, coraggiosa presa di coscienza questa «temeraria gioia», e per
questo ancor più necessaria.
Eleonora Rimolo, Temeraria gioia, con una prefazione di G. Sica e una postfazione di
F. Iannone, Ladolfi 2017, e. 10.
Incombe
la pagina, chiede di essere svolta,
eppure
troppe sono le curve vanescenti della visione,
parecchie
marce distorte conducono alla sciagura
del
non aver abusato della rosa, dell’averla
lasciata
lì, tra il rigagnolo e la riva, cenerognola.
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