domenica 11 giugno 2017

AILANTO n. 43 - Su Eleonora Rimolo



Da dove viene la forza spiazzante dei versi di Eleonora Rimolo, dove ha saputo forgiare il loro scoppiettante rigore, costringendoci a entrare in un vero e proprio caleidoscopio di metafore, di immagini che rovesciano il nostro senso abituale delle cose? In questa Temeraria gioia (così, senza alcuna preoccupazione del rischio, né dell’autorevole citazione oraziana, e neppure di esibire, fin dal titolo, le corde ossimoriche della sua ispirazione), questa giovane autrice, nata nel 1991, percorre territori ambigui e infidi come quelli dell’essere, dell’eros, della stessa scrittura, disegnando un paesaggio in perenne moto verso la sua caducità, la sua finitudine, la sua morte. La presenza della morte è continua, nelle poesie di questo libro; e il suo pensiero, o il suo passaggio, definiscono davvero «temeraria» ogni pulsione di possesso (forse è questa la declinazione, il significato autentico della «gioia») che non si pieghi, per l’appunto, alle necessità della poesia. Eleonora osserva poeticamente il mondo, fa accomodare i suoi lettori tra il presente e il passato remoto, i due tempi visibilmente più frequentati in questi versi; ovvero tra il commento e il ricordo, tra l’esperienza e il pensare l’esperienza.
Tra questi due poli, tutt’altro che scontati, si agita un microcosmo poetico, fatto di labili, improvvise apparizioni, entrate in scena, piccoli colpi di sorpresa. Sono accenni che testimoniano, a dispetto della ricchezza retorica, della potenza delle immagini e del dettato, una poetica tutto sommato votata alla parsimonia, nel senso dell’essenziale. Non a caso, neppure dopo un mese dall’apparizione del libro, Rimolo è tornata sui suoi versi, congedando questa «seconda versione aggiornata». Non c’è bisogno di dire tutto, o di dire troppo: questo trobar clus, che risente con evidenza dichiarata dell’influsso di un poeta come Milo De Angelis, a cui mi sentirei di aggiungere Amelia Rosselli, ci restituisce un ermetismo di ritorno che poggia su un indiscusso gradiente orfico. I segnali ci sono tutti, perfino il «porto segreto» da cui non si riesce a salpare. Ma – questo è il merito – non si tratta di un orfismo di maniera. Eleonora Rimolo sa costruire una casa solida, circoscrive, identifica un territorio espressivo più che legittimo. E il mito, la cui presenza viene spesso a chiudere i testi, soprattutto nella prima parte del libro, non è un suggello facile, un modo come un latro per terminare il discorso, ma al contrario apre a nuove, inaudite dimensioni, che creano sì un vortice di echi letterari, e insieme evocano quell’altrove dove la gioia è un «bordo tagliente», dove si può romanticamente naufragare.
Così, rifuggendo le tentazioni e le lusinghe di un «tu tentacolare», forte di una gioventù ancora in grado di tenere alte le tensioni, e di una maturità che sa contenerne i picchi espressionistici per conservare la verità di ogni dramma, Rimolo fa di questo «cumulo sciolto di storie» una materia ancora viva, la cui «violenta gratitudine di morire» si traduce nella «grazia infinita / del finire». Dolente, coraggiosa presa di coscienza questa «temeraria gioia», e per questo ancor più necessaria.

Eleonora Rimolo, Temeraria gioia, con una prefazione di G. Sica e una postfazione di F. Iannone, Ladolfi 2017, e. 10.

Incombe la pagina, chiede di essere svolta,
eppure troppe sono le curve vanescenti della visione,
parecchie marce distorte conducono alla sciagura
del non aver abusato della rosa, dell’averla
lasciata lì, tra il rigagnolo e la riva, cenerognola.

Nessun commento:

Posta un commento