Quando Pier Paolo Pasolini, nel febbraio del ’71, salutò l’esordio in
poesia di Dario Bellezza sostenendo che l’autore era «il miglior poeta della
nuova generazione», quel viatico non mancò di suscitare in qualcuno dubbi e
fastidi. In realtà Pasolini ebbe facile gioco, nel senso che Bellezza – così
sembrava – era giunto al libro con un certo anticipo, rispetto a quelli che si
sarebbero rivelati, di lì a qualche anno, i suoi compagni di strada. A vederla
da qui, a diversi decenni di distanza, la prima metà degli anni Settanta
somiglia a una grande officina i cui manufatti dovevano mostrarsi soprattutto nella
seconda parte, a cominciare da alcune antologie militanti e polemiche: Il pubblico della poesia, Il poeta postumo, fino a La parola innamorata e a Poesia degli anni Settanta di Antonio
Porta, che piuttosto che riepilogare il decennio e fare da cerniera con quello
successivo, di fatto lo chiusero, passando il testimone a una nuova stagione
della poesia italiana. Il decennio dell’«io che brucia» si concludeva
bruscamente, con il crollo – reale prima che simbolico – del palco del festival
poetico di Castelporziano.
La questione non riguardava tanto chi fosse o meno il migliore: in
poesia vince chi ha il fiato lungo, non il passo più veloce. La parte di verità
di quell’affermazione di Pasolini non è nel giudizio di merito, ma nella parola
«generazione». Dalle pagine delle riviste, e soprattutto da quelle di «Nuovi
Argomenti», il poeta-critico era sempre in grado di monitorare lo stato della
nuova letteratura, di misurarsi con le scritture più recenti e di promuoverle.
Dunque esisteva una generazione, ancora nota solo agli addetti ai lavori, ma
che ben presto sarebbe andata incontro ai suoi lettori: Invettive e licenze ne fu il frutto immediatamente visibile, anche
se Bellezza aveva già pubblicato un libro in prosa l’anno precedente, dal
titolo L’innocenza. A firmare la
presentazione era stato Moravia, e il coté
era confermato. Eppure Invettive e
licenze non fu, come sarebbe apparso per molto tempo, l’unico libro della
«nuova generazione» a vedere la luce in quel periodo. Solo due mesi prima, sul
finire dell’anno 1970, l’editore Cappelli aveva dato alle stampe un altro
esordiente, questa volta assoluto. Il suo nome era sconosciuto ai più: aveva
iniziato da poco a collaborare a «Mondo operaio» e alle pagine culturali della
«Voce repubblicana», ma nulla di suo circolava ancora sui periodici letterari.
Era nato in una provincia del Sud, si era trasferito a Napoli a otto anni e lì
aveva proseguito gli studi per poi approdare a Roma. In quello straordinario
crocevia di personaggi che fu la Libreria Bocca, a Piazza di Spagna, poté
imbattersi in molti degli esponenti della cultura non solo romana, dei quali
seppe conquistarsi l’amicizia.
Cominciò così, con vari passaggi di mano, la storia di quel libro
intitolato dapprima Narciso in pensiero,
e successivamente, su invito dell’editore, La
chiave di vetro. Ad accoglierlo in casa editrice, a seguirne la stampa e a
scriverne il risvolto, rimasto anonimo, fu Mario Ramous, un poeta forse oggi
poco letto, ma straordinario conoscitore della poesia classica e autore di un
fortunato manuale di metrica. Tra coloro che lo ricevettero ci fu Elsa Morante,
che solo nel 1974 avrebbe congedato il primo libro di Patrizia Cavalli,
imponendo il titolo Le mie poesie non
cambieranno il mondo: la generazione cominciava lentamente a comporsi.
Eppure, nonostante il primato, e nonostante l’accoglienza entusiastica dei
lettori e le recensioni di Giancarlo Vigorelli e dello stesso Bellezza, La chiave di vetro era destinato a restare
in disparte, rispetto ai clamori di cui fruì Invettive e licenze. Per quanto improprio, il giudizio di Pasolini
impose delle distanze che furono, col senno di poi, di ordine letterario.
Mai due esordi poetici così ravvicinati furono altrettanto importanti
e lontani tra loro. Il libro di Bellezza cavalcava agilmente, e con la giusta
dose di sfrontatezza, la migliore tradizione italiana, per affondarvi infine come
in una palude, dalle cui fangosità non ci si decide a uscire. Infatti in quella
lingua così provocatoriamente barocca, dalla sintassi un po’ vetusta e dai toni
sempre belligeranti, Bellezza era assolutamente a suo agio. Un po’ meno il suo
lettore, forse, anche se le recenti dilatazioni sperimentali dei «novissimi» avevano
ormai abituato il pubblico agli esiti più dirompenti. Ma non bastò: anche Invettive e licenze dovette presto
scontrarsi con ben altre istanze collettive, rispetto a quelle dell’eros e
delle sue rivendicazioni, al di là o al di qua del genere. Del resto, lo spazio
sociale dello scandalo, nonché il suo potere di erodere le convenzioni, si era
già piuttosto consumato quando il libro apparve e gli anni Settanta si
sarebbero configurati come il decennio del femminismo, del divorzio,
dell’aborto. E del piombo.
La chiave di vetro si presentò invece come un’opera decisamente insolita, seppure in
linea con l’idea di antinaturalismo e di svecchiamento invocata dalle
avanguardie. Era un testo che guardava all’Europa, direttamente e senza
mediazione alcuna: lo sguardo dello scrittore si apriva intanto alla
contaminazione, e questa, che rimane oggi il punto di forza più convincente di
quell’esordio, nonché la struttura evidente del libro, fu con ogni probabilità
anche la causa di un’incertezza, sul piano della ricezione. Cosa aveva il
lettore sotto gli occhi? Si trattava di un libro in versi, di un esperimento
narrativo o di qualcos’altro? La disposizione tipografica, così voluta dallo
stesso autore, non aiutava e non aiuterebbe anche adesso, se la nostra lente
non fosse stata messa adeguatamente a fuoco e ripulita di quei pregiudizi che
allora rimandavano a precisi steccati ideologici e creativi. La tentazione di
arginare un’opera così fluida in una precisa quanto inutile tassonomia, o
quella di costruirle intorno una possibile teoria per poi costringerla nel
territorio angusto della sconfessione, ha impedito quegli affondi critici che ad
altre opere non sono mancati, ma l’ha anche messa al riparo da certe urgenze
storiografiche e manualistiche. Possiamo finalmente leggere La chiave di vetro come un prosimetro
indefinito, al cui interno il passaggio di forma resta spesso inavvertito e
inavvertibile. Quando il narrato cede al lirico, non sempre la prosa cede al
verso. E lo stesso accade se invertiamo l’ordine e rovesciamo la prospettiva. Insomma,
l’evidenza della novità congiurava contro la natura di quella novità, la
occultava tra le pieghe di una scrittura mobilissima, la cui materia
autobiografica si distaccava precocemente dai modi in cui la «nuova
generazione», e Bellezza stesso, l’avrebbero «bruciata».
Faticheremmo non poco, infatti, a cercare in queste pagine l’«io che
brucia». Non c’è alcun soggetto in fiamme, ma il ritorno pieno, e problematico,
di quello che Debenedetti aveva definito «il personaggio uomo». Un’intera e
ampia stagione sperimentale si affaccia nella Chiave di vetro, e con essa una geografia letteraria che comprende
l’Inghilterra di Virginia Woolf e la Francia di Michel Butor, nonché la grande
esperienza della Mitteleuropa. Ma sotto questo ritmo si agita soprattutto il Gombrowicz
dei diari. Elio Pecora, questo il nome dell’autore, non aveva dunque mancato di
guardarsi intorno e si era recato da Roma fino in Baviera. Lì, a opportuna
distanza dai luoghi più suoi, si era arreso alla scrittura.
Di italiano questo libro conservava solo la lingua. Che i più accorti
lo accogliessero con giudizi lusinghieri è credibile almeno quanto la defezione
di chi allora non seppe, o non volle, misurarsi con esso. La complessità dei
suoi referenti si mostra oggi, a più di quarant’anni dalla prima edizione, come
una sfida accattivante sul piano dell’interpretazione, ma anche su quello della
ricostruzione di un contesto. Di fatto la Mitteleuropa non aveva perduto nulla
del suo fascino e del suo prestigio, per quanto il raggio dei suoi influssi
risultasse indubbiamente indebolito. Perché la sua forza propulsiva tornasse pienamente
ad accendersi, bisognava attendere di rileggere Walser, o che apparissero le
prime traduzioni da Thomas Bernhard. Quella cultura, invece, aveva
profondamente inciso nella formazione letteraria di Pecora, accanto alla
frequentazione dei classici. Irrorando quella matrice antica con nuovi attriti
e nuove tensioni, psicologizzandola. Binswanger sarebbe stato tradotto solo
l’anno seguente, ma il percorso di «costituzione del mondo» attraverso
l’esercizio di una soggettività intenzionale quanto critica era già consolidato
nelle pagine che oggi rileggiamo e affidiamo a nuovi lettori.
Al di là delle suggestioni formali (o informali, a seconda del punto
di vista), era dunque questo il vero nodo da sciogliere: come coniugare il
patrimonio greco e latino con la piena modernità del Novecento più inquieto e
avvertito; come declinare le istanze di consapevolezza di un io «che sa della
vita, di sapere che non basta sapere», come scrisse Ramous, attraverso l’elegia
degli augustei o le malinconie arcadiche. L’estensore del risvolto, da
classicista, avrà forse trovato le sue risposte. Ne azzardo una, sulla scia del
titolo primitivo e dei suoi suggerimenti. Ogni percorso di osservazione dell’io
risponde necessariamente a un principio di oggettivazione: Narciso contempla se
stesso perché l’acqua ne riflette il sembiante. Solo così sarà possibile
chiarire il ruolo effettivo che la parte di lirismo e quella di narratività
inscenano in questa costruzione; e si tratta di un ruolo ibrido, cangiante come
le mille maschere di Dioniso. Il lirismo si fa paradossalmente oggettivo. E Narciso
affonda tra le acque: Dioniso, il dio misterioso, ci attende proprio lì dove
siamo certi che «Le cose stanno così». E come nel frammento di Eraclito a mo’
di epigrafe, «non dice, non nasconde, ma accenna», suggerendo la vera forma di
questa scrittura, e la sua straordinaria velocità che ci viene consegnata
intatta.
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