domenica 22 novembre 2015

AILANTO n. 23 - Su Giorgio Orelli


Giorgio Orelli apparteneva a quella speciale stirpe di autori novecenteschi, per i quali la pubblicazione di un libro non coincideva con un problema d’identità, ma con l’aspirazione a produrre un’opera da affidare alla durata. La sua è stata una presenza piuttosto discreta nelle vicende della poesia italiana del secolo scorso: in parte perché Orelli era ticinese, in parte (e credo sia la parte più evidente) per un senso particolare della misura, che ha condiviso con tutti i maggiori poeti, da Montale a Ungaretti, da Sereni a Penna. Sfogliando l’Oscar mondadoriano, non corposo come altri, recentemente apparso per le cure di Pietro De Marchi, ci accorgiamo subito che la bibliografia di Orelli appare piuttosto scarna. Nel corso della sua lunga vita (era nato nel ’21, si è spento nel novembre di due anni fa) contiamo quattro raccolte principali, sempre apparse a notevole distanza tra loro: L’ora del tempo del 1962, che chiudeva in qualche modo la sua prima stagione; Sinopie, del 1977; Spiracoli, del 1989; infine, presso Garzanti, Il collo dell’anitra nel 2001.
Orelli appartiene anche a un’altra tradizione, che la nostra letteratura condivide certamente con gli altri modelli europei: siamo di fronte a un poeta colto. Le sue indagini su autori fondamentali delle nostre origini, come Dante e Petrarca, fino a quelle su Pascoli, Montale, nonché la sua attività di traduttore, in grado di misurarsi agilmente con le liriche di Goethe, hanno fatto di lui una figura di frequentatore della poesia a tutto tondo; e se è vero che i confini tra i generi, nel corso della modernità, tendono a farsi sempre più labili, si dovrà constatare come e quanto  le diverse forme della scrittura abbiano dialogato a fondo, in Orelli, lasciando tracce evidenti anche nella sua ricerca lirica. Non solo sul piano di una possibile intertestualità con quegli autori studiati, ma anche, direi, per quanto concerne toni e registri, allusioni e citazioni. Non è sempre facile imbattersi in lui, specie a partire da Sinopie, il libro in cui il dettato orelliano, pur mostrando una certa continuità, inizia a farsi più complesso, talvolta più cifrato e sintetico.
La sintesi, nel senso anche della brevità e della concisione, è un suo tratto caratteristico. Assai di rado c’imbattiamo in componimenti che travalicano la pagina per consegnarsi a quella successiva. Da questo punto di vista Orelli si pone in parallelo con altri compagni di strada, come Erba o Risi, ma sempre conservando una propria fisionomia rispetto alla cosiddetta linea lombarda. L’Oscar è arricchito da una sezione di testi sparsi e inediti, che avrebbero dovuto comporre un’ultima raccolta, dal titolo L’orlo della vita, e da una scelta delle traduzioni, a riprova che questa pratica non rappresenta mai per un autore un territorio a sé, ma appartiene di diritto alla propria ricerca in versi. Ancora una citazione dantesca occupa quello che sarebbe stato l’ultimo titolo di Orelli, se la morte non avesse interrotto l’allestimento di una raccolta che gli strumenti della filologia ci consentono di leggere, ma in una forma sempre approssimativa rispetto a quella che gli avrebbe conferito il poeta: le sue carte, i suoi quaderni, sono stati trovati sulla sua scrivania, ma la compiutezza era ancora lontana. Una situazione simile a quella di Res amissa di Caproni, dunque; e siamo grati al curatore per aver comunque condiviso questi testi, che indipendentemente dal loro ordine, contribuiscono a restituirci una più compiuta immagine di Giorgio Orelli.

Giorgio Orelli, Tutte le poesie, a cura di Pietro De Marchi, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, bibliografia di Pietro Montorfani, Mondadori 2015, e. 22.00

Nel giardino di casa, con sospetta
complicità di ortensie
è raggiante il bambino che mangia
il fiore di magnolia,
mentre un altro contempla una lucertola
che non scappa, protesa sul bordo
del marciapiede come in ascolto,
e non osa toccarla, quasi incredulo
della morte;
e in poca terra pedala pedala
un terzo, che al saluto
mi dice: «Questa qui
è la bici del mio fratello,
quand’ero grande me la regalava».

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