giovedì 28 settembre 2023

AILANTO n. 72 - su Giuseppe Digiacomo





Giuseppe Digiacomo, classe 1957, è un autore schivo. Vive nella sua Comiso, per il cui territorio si è sempre speso in prima persona. Amico di personaggi come Bufalino, Fiume, ha esordito nel 1980 con Alchimie per vivere; ha continuato a pubblicare con estrema parsimonia, com'è dei veri poeti, fino al 2007, quando apparve Canti di guerra e divine inconcludenze per Archilibri (Salarchi immagini). Per lo stesso editore, a tre lustri di distanza, ha congedato sul finire dello scorso anno Fuori dal perimetro del disonore, con una nota introduttiva di Andrea Guastella e una copertina di Giovanni La Cognata.

La cifra predominante, nella sua scrittura, è quella di un'amarezza mai fine a sé stessa, né fintamente consolatoria. Il rigore dello stile, la scelta accurata di ogni parola, chiusa spesso in un recinto breve dove l'economia si rivela chiave espressiva vincente, connotano tutto il suo percorso. Digiacomo è poeta che ha saputo trovare il difficilissimo punto di tangenza tra elegia e satira, tra invettiva e lirismo, al punto che in nessuna di queste declinazioni sarebbe possibile restringere i suoi versi, che vengono piuttosto da lontano, da un lento ruminìo della mente e del cuore. Ricorro non  caso a questo termine, perché lo stomaco bovino è stato spesso associato come metafora alle scritture d'ispirazione morale; e di morale ne emerge tanta, anche in queste nuove poesie, che lasciano intendere un autodafé finanche spietato, senza sconti, che dall'io avanza verso un'intera generazione, verso le sue battaglie e le sue illusioni. E questo ruminìo impone, in quel genere di scritture, anche una visione laterale, di scorcio. Digiacomo infatti osserva le proprie virtuose e luminose sconfitte dalla prospettiva di un «angolo» («in quest'angolo di scarti / da cui non so uscire»; «questa terra bruciata / che ci ha buttati nell'angolo»), sì da incorniciarle in una riflessione lucida, disincantata, sui percorsi non compiuti, sulle possibilità inespresse. Come un sopravvissuto osserva da quell'angolo un passato denso di timori pubblici e privati, di ideali impediti; come un estraneo inseguito da antiche ossessioni, che prendono la forma onirica di figure incombenti, si pone nella giusta misura per rileggere eventi ormai lontani, ben consapevole che le «scintille», anche «dolorose» della gioventù si sono ormai esaurite senza appiccare alcun incendio. Dal fondo preme un altro e più pungente dolore, quello di una vita che «fa male», e prima della «decomposizione» si apre la «mattanza dei ricordi», come una «pletora d'immagini / ambiziose, velleitarie» a illuminare soltanto «quell'orrore che ci portiamo dentro» e che culminerà nel baratro finale.

In quest'altalena di illusioni, che lo sguardo maturo sposta sul versante drammatico di una resa anzitempo e di una rivincita non colta, il poeta si rappresenta come «una pulce ammaestrata». L'immagine non è nuova, la si ritrova nei versi che Biancamaria Frabotta aveva posto ad apertura dei suoi Eterni lavori («Sono come le pulci, i poeti / acquattati nel pelo del mondo»), ma qui l'ammaestramento induce a una più profonda e insieme vasta intonazione morale, dietro cui trapela il giudizio del soggetto verso un presente di catastrofi e apparenze. Così l'allegoria del pescatore che bacia i pesci pescati, al principio della cruda sequenza intitolata Secondo taglio, illustra il venir meno non solo delle illusioni trascorse, ma anche delle energie che potevano supportarle. In questo asciuttissimo quadro che sembra talvolta rasentare il solipsismo, ma che si affida anche a una persona plurale, resta solo la poesia, a siglare che «non tutto è definitivo», e in quel suo «vasto campo aperto» rime e parole sono ancora in grado di ricomporre fratture, trattenendo così l'autore «fuori dal perimetro del disonore» e forse riaccendendo quelle scintille in noi che leggiamo.

Giuseppe Digiacomo, Fuori dal perimetro del disonore, Salarchi immagini 2022, e. 9,00.


E il tempo passa e a me non dispiace.

A me non mi dispiace di passare il tempo.

All'alba vorrei andare sulla riva

ma sulla riva non ci vado e non fa niente.

Così io mi preservo dal dolore

d'essere felice sulla riva.

E l'imbecillità sgrammaticata

è come manna che non ho assaggiato.



Nessun commento:

Posta un commento