venerdì 16 dicembre 2022

AILANTO n. 70 - su Vivian Lamarque

 



Con la consueta, pensosa leggerezza che segna il suo tracciato poetico, Vivian Lamarque congeda per lo Specchio mondadoriano questa sua ultima prova, L’amore da vecchia, che a dispetto del titolo, come rileva Maurizio Cucchi nel risvolto, si presenta con versi «vivaci e freschissimi». Vorrei subito fugare un possibile equivoco, a proposito di questo titolo apparentemente contraddittorio, quasi scandaloso, fuori norma, perché l’amore di cui si parla in queste poesie trascende la dimensione puramente sentimentale o fisica per apparire piuttosto in tutta la sua ampia e distaccata saggezza. C’è l’amore per la natura, per il paesaggio anche urbano, per le figure note o sconosciute che lo popolano e lo attraversano, incrociando lo sguardo dell’autrice; c’è l’amore famigliare, rivolto a personaggi che appartengono alla storia privata di Lamarque; c’è anche - come sogno, proiezione, desiderio che esprimono una vitalità mai sconfessata – l’amore che dalla gioventù e dalla maturità tracima senza soluzione di continuità in quell’estrema stagione che ci lascia inermi davanti al pensiero della morte.

Tutta questa rete di immagini e temi, ancora una volta, si esprime e si risolve non senza ironia, che è sempre una forma della presa di distanza; dietro la scanzonata baldoria delle rime, dietro i ritmi da arietta che hanno più volte fatto riecheggiare i nomi di Saba e ancor più di Penna, traspare in realtà un sostrato ben diverso, e a guardare meglio la forma di queste ultime poesie si slabbra, rinuncia al rigore della tradizione, quasi esplode senza più contenere il mondo lirico che in quella stessa forma cercherebbe una sua giustificazione. Non è un caso che, più che nei libri precedenti, quella tradizione che dai classici approda nel cuore del Novecento sia qui esibita senza camuffamenti, quasi a ribadirne la possibilità di rottura, non in senso eversivo ma correttivo: «Quale amore in queste poesie?», si domanda il poeta sulla soglia del libro, e l’elenco è invero vasto, fino a trasformare quello stesso amore in una specie di sapienziale understatement. Insomma, c’è coerenza con quanto Vivian Lamarque ci ha finora consegnato, ma c’è anche un punto di svolta, se «l’immaginazione non riesce più a immaginare /ora procede per una strada oscura» (Lugete o Veneres).

In questo sentiero oscuro, che prefigura un Ade sulla cui soglia intravediamo perfino la Parca (Filo da ricamo), l’autrice, armata soltanto della sua matita affilata, cerca di trattenere sul foglio la «fuggevole vita» le cui rappresentazioni si proiettano come su uno schermo cinematografico. Una intera, riuscitissima suite, si intitola proprio Come nel film. Una vorticosa carrellata, che da Lamorisse arriva fino al recente Nostalgia, interpretato da Favino per la regia di Mario Martone, ripercorre un settantennio di titoli esemplari attraverso cui Lamarque ricostruisce per interposta immagine un percorso esistenziale, come in un viaggio sentimentale. E proprio come una pellicola la poesia si lascia svolgere e mai del tutto riavvolgere, in questi testi che restano spesso aperti con domande di una tenerezza lancinante, di una verità disarmata.

 

Vivian Lamarque, L’amore da vecchia, Mondadori 2022, e. 18.00.

 

La lampada

 

Quella sera quel gesto

di spegnere la luce

allungando un poco

verso la lampada

la mano

quella sera che da sola

si spegnerà la nostra luce

che ne sarà dell’ultimo

pensiero? Resterà lì

sopra il letto sospeso?

O scalerà la luna

ove quel che qui si perde

là si raduna?

martedì 13 dicembre 2022

Nero residuo

Finalmente pubblicato. Un lungo progetto, che risale al 2017-2018; l'incontro con il disegno in tutta la sua inquietudine e drammaticità; la scrittura quasi febbrile nel giro di pochi giorni, l'intarsio tra due linguaggi, una pittura che si fa poesia e una poesia che si fa pittura, come suggerisce Lorenzo Canova nella sua densa  introduzione. Grazie a Laura Fortin per tutte le suggestioni che mi lascia ogni volta che m'imbatto nel suo segno; grazie a Vasco Scandurra che ha voluto questo libro. È bello, terribile, necessario, ogni tanto, uscire da sé.







lunedì 12 dicembre 2022

A Salerno per Gatto e Pasolini. Parlando anche di me.

Mercoledì 14 sarò a Salerno, ospite della Fondazione Gatto e dell'Università, che hanno organizzato un bel ciclo di incontri su Gatto e Pasolini. Alle 19.30, al Teatro Ghirelli, si parlerà anche dei miei ultimi lavori, All'altro capo e Nero residuo.




sabato 3 dicembre 2022

AILANTO n. 69 - su Paolo Del Colle







La poesia di Paolo Del Colle, romano classe 1957, segue fin dagli esordi con Gemme apicali un tracciato rappresentativo dei fragili rapporti tra soggetto e realtà, fino a disegnare in quest’ultimo lavoro, Stato di insolvenza, una vera e propria fenomenologia dell’autopercezione. Ha scritto bene Arnaldo Colasanti, presentando quest’autore nell’antologia Braci, di una «vita che è soltanto un continuo fisico morire». Il titolo stesso accompagna il lettore, facendolo addentrare in una fitta trama di senso, che spazia dal linguaggio giuridico (l’insolvenza dei debitori), a quello della chimica (la condizione di ciò che non può essere sciolto, diviso, disperso, al contrario di un titolo come Composita solvantur di Fortini), secondo una metafora esistenziale che si accavalla tra due differenti domini. E come ogni metafora che si estenui in un racconto trascende nell’allegoria, anche qui le poesie rappresentano le tappe di un’unica, compatta narrazione dove l’io e l’altro, l’io e la sua ombra, l’io e la sua paradossale irrealtà circoscrivono un territorio fragile, dove ciò che solamente può accadere è l’evidenza del loro contrasto: ciò che di residuo la vita insiste a chiedere al soggetto e ciò che il soggetto non può cedere - perché il suo contesto è per l’appunto segnato dalla labilità - sono i confini ontologici entro i quali prende forma lo scarto del probabile, del non vissuto, di ciò che avrebbe potuto essere, dell’essere che fugge irrimediabilmente dentro un tempo che è anche il tempo stesso del pensiero.

Del Colle predilige in queste ultime prove una versificazione quasi nervosa, adottando la misura breve, che culmina nei punti cruciali del suo discorrere nella forma canonica dell’endecasillabo, come a distendere, o a voler spiegare meglio (che è, etimologicamente, la stessa cosa), la tensione drammatica che i suoi contrasti esprimono. Anche quello che per molta poesia costituisce un asse portante, la memoria, è qui reso «fragile», poiché «quanto è diverso / ciò che accade / per un senso o l’altro»; i giorni si riducono a una «resa torpida». Le stanze, i corridoi che il soggetto percorre rimandano a una domesticità ingannevole, dove gli specchi restituiscono «smorfie», pericolose anamorfosi di una minima geografia familiare che si osserva tra ombre, bui, penombre, in una sorta di claustrofobia della mente e dei sensi («Il giorno si accende / e spenge nel corridoio»), di reclusione percettiva. Da questo brainframe volutamente ristretto, da questa prospettiva chiusa, l’io racconta il tragico di una diffrazione («una promessa da rispettare / che sempre meno / coincideva con la vita»): come se da un’esatta, quanto immaginaria geometria di Clerici si affacciasse, all’improvviso, il ghigno di un Bacon.

Insolvenza richiama il suo contrario “dissolvenza”, e di dissolvenze è intessuta la lingua di queste nuove poesie di Del Colle, scandite nei tre tempi delle sezioni e di un explicit in forma di post-scriptum. «Quanto dimentichiamo / è tutto ciò che resta», ma su uno sfondo difficile da illuminare, o modernamente intermittente, dove solo qualche rapido bagliore consente la feroce lucidità dell’autocritica, dalla «improvvisata soglia / di un arbitrario altrove». Anche i nomi propri dell’ultima parte del libro non scandiscono identità o ricordi, ma si assestano nella loro precarietà, a rammentarci che la prima illusione affettiva con cui siamo chiamati a fare i conti è proprio l’insieme delle coordinate, spazio e tempo, con cui invano insistiamo ad addomesticare - e a scrivere - la nostra esistenza.

 

Paolo Del Colle, Stato d’insolvenza, Amos Edizioni 2022, e. 12.

 

 

anche i nomi hanno uno statuto

provvisorio

un grumo amorfo

di pigre circostanze

accumulate nel tempo

che si può asportare

così non ci voltiamo

se qualcuno

ci riconosce o ci chiama

per saltare il nostro turno

mercoledì 12 ottobre 2022

Dal 20 al 22 ottobre a Palermo per Pasolini

Dal 20 al 22 ottobre si terrà a Palermo il Convegno internazionale Il sogno del centauro. I sovvertimenti di Pasolini tra pedagogia e linguaggi, organizzato dalla cattedra di Letteratura italiana dell'università, con ampia collaborazione di istituzioni. Il convegno rientra tra le manifestazioni previste per Pasolini100, la ricca serie di iniziative avviate in occasione del centenario dalla nascita del grande autore.





giovedì 6 ottobre 2022

Daniela Baroncini su «All'altro capo»

Lo scorso 10 settembre All'altro capo ha ricevuto il Premio Pascoli 2022. Pubblico qui la motivazione della Presidente della giuria, la collega Daniela Baroncini dell'università di Bologna e con l'occasione la ringrazio delle sue parole così precise.




Il Premio Pascoli di Poesia 2022 viene assegnato a All’altro capo (Mondadori, 2021) di Roberto Deidier per il suggestivo viaggio poetico nella memoria, nel mito, nell’arte, nei territori dell’evanescenza tra realtà e dissoluzione, attraverso parole di ombra e di luce che esplorano paesaggi intimi e al tempo stesso metafisici. Parole nate dal dolore che colgono la profondità dietro il velo malinconico di epifanie occasionali, dettagli quotidiani, immagini effimere, rappresentando l’assenza tra sogni, miraggi, apparizioni e sparizioni. Parole di luce e d’aria che convivono con il vuoto e indagano il senso del non senso, con la speranza invincibile di “un’accidentata felicità, di sorprese / non segnalate”. La scrittura limpida, tersa, nitida traduce perfettamente la “lucida sostanza” del nulla, attraversato dalla parola-luce che contrasta strenuamente il non essere. Questa scrittura colpisce inoltre per l’esercizio costante dell’eleganza distillata attraverso una raffinata operazione di sprezzatura. Ne risulta un timbro unico anche per la precisione delle parole, il rigore e l’etica della forma, ad affermare in modo del tutto originale il valore della poesia come costruzione contro il dilagare del nulla. In questo modo la parola diventa esperienza conoscitiva dell’io, della realtà e dell’oltre tra speranze e disincanti, trasmettendo al lettore i brividi della grande poesia.

 




lunedì 26 settembre 2022

AILANTO n. 68 - su Jericho Brown

 


La poesia di Jericho Brown, di cui possiamo leggere in tradizione italiana la terza raccolta vincitrice del premio Pulitzer 2020, si ispira fin dagli esordi a tematiche sempre urgenti, come la violenza razziale, vissuta sia sul piano sociale e politico, sia su quello più domestico, famigliare. The Tradition, in italiano La Tradizione, con quella maiuscola conservata che rimanda a un’altra maiuscola non meno tragica, la Storia, è un libro diviso in tre parti strettamente dialoganti tra di loro. La sua compattezza è sia nelle immagini e negli argomenti che veicolano, sia nelle scelte formali. Brown, nato in Louisiana nel 1976, non è il poeta eversivo che scardina la tradizione poetica, anzi vi attinge pienamente per innovarla dal suo interno. Come per la maggior parte dei poeti di lingua inglese, i suoi versi hanno mantenuto la maiuscola, a rendere più mobili, esagitate le sue frequentissime inarcature. Sono almeno due le tradizioni che percorrono la scrittura di Brown: quella americana, che ha i suoi avvii in Whitman e Dickinson, per giungere – attraverso la grande poesia degli anni Cinquanta e Sessanta (Lowell, Plath e Sexton) – fino alle più recenti esperienze di Rich e Glück e testimoniare così l’attenzione costante di questo autore verso la poesia delle donne. Non secondaria è la presenza della tradizione afroamericana, più legata ai temi civili, così da imbatterci, per via diretta o per citazione, in Gwendolyn Brook, James Baldwin, fino ai poeti della Harlem Reinassance, le cui novità formali non hanno mancato di lasciare tracce più che visibili.

Proprio la forma è un tratto imprescindibile, e non accessorio: è il motore stesso di un racconto sempre teso, che prosegue secondo griglie precise e spesso sperimentali (come nel caso del duplex o del bop, secondo un assetto che tende non a negare ma a innovare), o secondo riprese della tradizione, per esempio il sonetto, privato della sua più consueta livrea lirica e sentimentale e tradotto in una contestualizzazione ben più drammatica, diventando una forma di protesta. Anche in questo senso, come scrive Brown, «A poem is a gesture toward home», «Una poesia è un gesto verso casa». Ed è un senso binario, che ci riporta da un lato alla violenza razziale, ai soprusi, dall’altro a una dimensione che si vorrebbe sicura, a garanzie sociali ancora ben lontane dall’imporsi. Ha ragione la traduttrice Antonella Francini, c’è un incessante pianto delle madri che percorre il libro. E ci sono figure che appartengono ormai a una triste sequela di assassinii e linciaggi. Così la Tradizione, riletta analiticamente, appare al poeta come il luogo dove mascherare il male e l’abuso di potere, a partire dal ratto di Ganimede, considerato per quel che è, un atto di stupro. Brown asserisce di non provare paure «di fronte / A conflitti così antichi che sembrano / Non contare nulla davvero» ma la sua critica alla Tradizione non gli impedisce di ricercare sprazzi di bellezza anche laddove a dominare è ben altra verità, rompendo così il nesso romantico a cui eravamo abituati.

 

Jericho Brown, La Tradizione, a cura di Antonella Francini, Donzelli 2022, e. 14.00.

 

Duplex

 

Comincio con amore, sperando di finirla lì.

Non voglio lasciare un cadavere malandato.

 

Non voglio lasciare un cadavere malandato

Pieno di farmaci che vanno a male nel sole.

 

Alcuni miei farmaci vanno a male nel sole.

Ad alcuni di noi non serve l’inferno per essere buoni.

 

Ai più bisognosi serve l’inferno per essere buoni.

Quali sono i sintomi della tua malattia?

 

Ecco un sintomo della mia malattia:

Gli uomini che mi amano sono uomini a cui manco.

 

Gli uomini che mi lasciano sono uomini a cui manco

Nel sogno dove io sono un’isola.

 

Nel sogno dove io sono un’isola,

Divento verde di speranza. Vorrei finirla lì.

venerdì 2 settembre 2022

«Viandanze. Poema umano» di Raffaele Niro

È appena apparso per l'editore Raffaelli di Rimini il nuovo libro di Raffaele Niro, con la mia prefazione che qui posto. Buona lettura, buon viaggio a questa nuova opera!





Questo nuovo libro di Raffaele Niro, fin dalla copertina, vuole darci alcune possibili indicazioni di lettura, a partire dal titolo e soprattutto dal sottotitolo, che identifica un genere alto, ambizioso: narrare, cantare l’«umano». Scriveva Victor Hugo che «fare il poema della coscienza umana, fosse pure di un solo uomo, del più infino tra gli uomini, sarebbe come fondere tutte le epopee in un’epopea superiore e definitiva». L’etichetta di «poema umano» è stata via via attribuita alle opere che davvero rappresentano, reinventano, restituiscono un mondo, dai classici alla modernità; ovvero quelle opere dopo la cui lettura il nostro sguardo sulle cose non potrà più essere quello di sempre. Quelle opere, quindi, dove il discorso sulla vita, sulla dignità dell’uomo si fa assoluto e richiede una parola altrettanto esatta e assoluta. Si tratta, per chi pratica l’arte della scrittura, della scommessa più alta, che a sua volta prevede una speciale disposizione: quella dell’ascolto corale, della «viandanza» (come già Biancamaria Frabotta aveva intitolato un suo libro») intesa non come semplice wanderung né come peregrinaggio, ma come ampliamento percettivo passato al filtro di un’apertura sentimentale verso le realtà in cui il soggetto s’imbatte. Privati di questa fondamentale capacità, l’attributo «umano» si scolora in tutte le sue genericità; i poeti errano - nel senso che potevano intendere Dante e Petrarca - e gli attori di questo presunto poema perdono la loro vera significanza.

Celebrare il «poema della vita umana», come fece un pittore guardando all’antico, presuppone non solo il possesso di uno sguardo lucido e attento sul presente, ma una sorta di doppia visuale, all’indietro, sulla Storia: la visuale che Benjamin aveva riconosciuto all’angelo di Klee. Così Giulio Aristide Sartorio guardava ai miti che recuperava, e in tempi più prossimi Danilo Dolci, nel suo Poema umano, cercava di ridare parola a un ragazzino antico, ancora in grado di osservare, toccare, pensare il mondo: «se l’uomo non immagina si spegne», ammoniva i suoi lettori, e in quell’immaginare stanno, felicemente insieme, la dignità di chi racconta e quella di chi è raccontato. Anche nell’insidia (o nelle possibilità) di quel mondo fluido che Bauman ha riconosciuto su più piani.

Perché quella parola possa ritrovare la sua efficacia, anche la sua sfera semantica d’azione deve contemperare l’indagine sull’oggi e lo scavo verso il passato; deve cioè ritrovare quell’aura di natività che la renda semplice e fruibile, nel senso più nobile. Le epigrafi che Niro ha scelto proprio da Bauman e da Milosz ci portano in questa direzione: «perché chiunque (…) ascolti». È una precisa attestazione di dignità espressiva, che traduce uno status altrettanto preciso e in cui il poeta necessariamente si riconosce. Così non sorprende, già nella prima poesia a venirci incontro, che quella «dignità» si presenti come una forza erompente, in grado di abbattere i muri che la mente finisce per erigere. E più cresce, questa forza, se si nutre proprio di quella coralità a cui ho alluso: «la dignità del mio popolo», scrive Niro, recuperando un termine poco frequentato dalla ricerca poetica degli ultimi anni. Allora il pensiero corre subito a Vallejo, ai suoi Poemas Humanos, a quell’universalità lungamente cercata e perseguita, nell’incessante conio di una lingua ardita che potesse dare voce a quel popolo, ma dal lato più moderno di una Storia fatta di ombra e marginalità. A Niro mancano, però, le forzature sintattiche, le invenzioni di Vallejo; sembra non averne bisogno. Il popolo che intende cantare è composto dai mutevoli cittadini di una realtà sempre più fluida e globale; un popolo esposto ad altri rischi che non quelli individuati un secolo fa dal poeta peruviano. Ed è un popolo che si rifrange da un medesimo corpo, fisico e sociale. Credo sia proprio la semplicità del suo dettato, piuttosto, il contenimento delle significazioni plurime e l’aver indirizzato la sua parola verso una comunicatività finanche commovente, diretta, ad agire nel lettore quella «compassione» già avvertita da Foscolo come la sola virtù fra le tante «usuraie»: se non innocente, la lingua nativa è però coinvolgente, i muri si abbattono «insieme». Ma insieme «a chi?», recita l’interrogativo inquietante che ci proietta nel vivo di questi versi.

Sebbene scritto già nel 2012, Viandanze è il libro che trascina un poeta come Niro verso una lunga maturità. Conclusa la stagione dei rendiconti affettivi, della ricerca identitaria, con L’attesa del padre si affronta l’avvenuta genitorialità e si riprendono, non a caso, modelli di poeti viandanti come Ungaretti e Paz. Dunque Viandanze è la tappa essenziale, che dopo i primi due libri, segna per Niro nuove e ulteriori consapevolezze e conquiste. Questo «poema umano» si contiene tra un preambolo e una postilla e consta di tre sequenze simmetriche di venti testi ciascuna; la postilla reca in esergo una citazione da quel primo, antico «poema umano» che risponde al Cantico dei cantici. Quella che il poeta presta al suo personaggio narrante è una voce femminile, che ci accompagna fino alla fine; ed è proprio la voce, incarnata nella lingua, a fare da protagonista nella prima parte, tra perdita (anche volontà della perdita) e riacquisizione, tra lacerti di lingue diverse portate dal vento e tentativo di rinvenire ancora un significato, come se le parole fossero brandelli di senso da ricostituire, in una sorta di oracolo ormai incomprensibile. E la voce degli oracoli è sempre femminile. 

Contro il muro del presente si può strusciare «per provare a dimenticare / il nome delle cose», dice la voce, e ogni significato si proietta in un firmamento notturno, tra le stelle, in un rispecchiamento delle vicende umane in quelle degli astri: se una stella si fulmina, «evidentemente a spegnerti sei tu». Viene alla mente una lontana poesia di Louis MacNeice intitolata Stargazer, in cui il poeta, contemplando la volta celeste, s’interroga sulla luce delle stelle e sul tempo che impiega a raggiungerci, che non può certo coincidere con la brevità della vita umana: «non sarà qui / Mai in tempo per me». Questa diffrazione dolorosa è invece per Niro lo stigma di un destino, la soglia tragica di una lingua che necessariamente arretra («qui il tempo non si nomina né si misura»). Si può solo cantare la dura verità della terra, celebrarne i riti nei racconti serali, nel ritorno dei miti che rispondono a un narrare ancestrale, affinché il sonno riconquisti spazio alla speranza. Ed è proprio allora che la voce s’inarca, si fa più marcata, volteggia sulle proprie immagini, si affida alle metafore della natura e del corpo («quando ti sembra di aver imparato a camminare / azzardi a danzare / inventi passi / che ti porteranno a completare la scrittura / della tua primavera»). Quel corpo torna però sulla scena come monade, per qualche sequenza stenta a farsi sociale: non un popolo ma un coacervo di singoli, una miriade di solitudini affastellate. Eppure terra, casa, lingua rappresentano, tutte insieme, una sfera marcata dal desiderio, forse finanche dall’utopia: il modo di quella lingua si fa ottativo, prima quasi segretamente, poi, sempre più, si vuole dare carne e concretezza a quella speranza, a quella «gioia fragile» che contiene «l’intensità di ogni singolo respiro».

Desiderio e verità, o in termini freudiani principio di piacere e principio di realtà, si fronteggiano nella lucidità di quella voce. Ogni conquista è segnata dalla labilità, dalla consapevolezza che tutto può franare da un istante all’altro. La viandanza è sempre segnata dal rischio di perdere quella coralità agognata, nomade è anagramma di monade. Con questo carico siamo invitati a entrare nella seconda parte del poema; qui, nell’immediato, ci imbattiamo nel cromatismo più denso di simboli, quello del sangue, ma altri, sempre fecondi simboli agitano questa sezione dove i fluidi rappresentano una dimensione parallela alla liquidità dei sogni. Acqua e sangue nutrono la terra e il corpo, in un unico continuo naturale («io sto germogliando / nel sonno») eppure una tensione maggiore si lascia avvertire nella condizione stessa di quella spinta onirica: «il mio sogno è tra i prigionieri». In questa clausura, dove il movimento delle idee torna al suo principio senza raggiungere la voce, è consentito solo attraversare il deserto di sé stessi. Niro ha posto a epigrafe di questa seconda suite alcuni versi di Eliot, l’autore che meglio ha rappresentato, tra realtà e mito, tra storia e leggenda, l’avvenuta desertificazione del soggetto moderno; la viandanza si fa mise en abyme, discesa negli abissi di quella soggettività scarnificata. Ad inferos, verrebbe da dire. Acqua e sangue allestiscono infatti una geografia verticale di movimenti fluidi tra l’alto e il basso e viceversa, come nell’Ade descritto da Rilke e attraversato da Orfeo, Euridice, Hermes. Attraversare il corpo comporta inevitabilmente quella discesa, l’incontro con le proprie ombre e le proprie ossessioni: «nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso», scriveva Sbarbaro. Ed è al termine di questa impresa che il corpo si riconosce nel desiderio, ancora una volta, di essere «patria».

La terza parte è introdotta da una citazione dalla Storia della notte di Borges. Il suo linguaggio, stavolta, è quello del molteplice, del rifrangersi del soggetto, del suo moltiplicarsi negli specchi. Si scontano l’illusorietà e il disincanto, la realtà tutta appare come una prigione, come un inferno in cui «non si parte / ma si arriva», un «qui» temibile. Una patina pascaliana riveste quest’ultima sequenza del poema, il tono drammatico si intensifica nella perdita della speranza, nella consapevolezza della mancanza. La viandanza si mostra adesso in tutto il suo portato tragico, come un «viaggio / tra le viscere del caos», ovvero in sé stessi. Il corpo ridotto a un campo di concentramento, mentre la lingua prosegue nel suo processo di inarcamento, quasi si arrocca su metafore sempre più complesse («il freddo della notte stringe / fa disegni con i nodi alle vene») che costituiscono delle brevi, fulminanti allegorie. È il punto massimo di tensione. Negli ultimi testi assistiamo a un ulteriore movimento; l’anelito al superamento di un limite (il corpo, ancora; l’umano stesso, i suoi forzati orizzonti) non resta confinato nella sfera del desiderio, ma si fa sostanza stessa e ragione del vivere. È con questo atteggiamento che lo sguardo può ancora rinvenire la «meraviglia / sul possibile» e ritrovare, infine, la propria antica fanciullezza, e in questa riconoscersi nella pluralità, nella reciprocità. Nella postilla «Popolo» è scritto con la maiuscola, come a evidenziare la nuova coscienza di una proiezione e insieme di un’appartenenza che può essere finalmente espressa. Si è stati un polo di tensioni tra l’io e il mondo, tra il corpo e le sue percezioni. È da qui, adesso, che può ripartire il vero «poema umano».

 





venerdì 15 luglio 2022

AILANTO n. 67 - su Baldo Meo

 


In questo suo nuovo libro, Pareri sul mondo oscuro, Baldo Meo si colloca in quel solco della modernità poetica che proprio per riaffermarsi come tale ha necessità di volgersi indietro e di dialogare con l’antico. Con un formidabile scatto anacronistico, che ribadisce quanto sia inattuale il lavoro dei poeti (inattuale nel significato di un’attualità perenne, metastorica), l’autore congeda un’opera che è anche, per certi aspetti, una mise en abyme verso le proprie radici (la Madre, ma soprattutto il padre), ma anche una discesa verso i più intimi recessi della propria officina poetica. Squisitamente moderne, in questo scavo anche metatestuale, di riflessione sul rapporto tra scrittura e realtà, tra poesia e verità, non a caso queste ultime poesie si nutrono di influenze bibliche senza disdegnare di guardare anche ad altre tradizioni, come ammantandosi di un sottile velo orfico per ribadire quanto la nostra esperienza del mondo sia filtrata da simboli ed emblemi, il cui linguaggio non sempre collima con quello della praxis. Una sezione del libro si intitola Obsoleto, ed è titolo che suona come un ammonimento e non come una giustificazione retorica. Talvolta affiora perfino la lingua della liturgia, ed è come se il flusso del tempo, il tempo della maturità e del lungo apprendere, fosse imploso verso un inatteso punto di partenza, verso un’infanzia di nebulosi incensi. Come accade, del resto, ai tanti turiboli di cui si ammantano le poetiche del simbolo.

Meo consegna al lettore, spiazzando il suo orizzonte d’attesa, un’opera enigmatica e allusiva, densa di riferimenti sia alla storia della letteratura (si ritrovano per esempio autori distanti come Petrarca e Orwell, forse il Giovanni di Walcott) sia alla dimensione del sacro; intesa, quest’ultima, non come pratica fideistica, ma come luogo in cui s’incarna un discorso ancora possibile tra l’umano (un «mercato di segni non scritti») e quel nesso profondo, ancestrale che lo rende parte di un tutto più grande, inconoscibile e misterioso. Avevamo già trovato tracce ungarettiane, in questo senso, nel libro precedente, Conservazione della specie del 2017; ora il «mistero» si fa dominante, diviene segreto che si disvela a tratti, in modo sempre obliquo, e mai interamente. La «cavernosa città» dove il soggetto si aggira è un dedalo di «mappe interiori»; è nelle profondità dell’essere che la realtà conserva quella rete di immagini misteriose che solo l’oracolo, o il linguaggio della poesia che gli è affine, può in parte svelare. In questo «mondo oscuro», in questo addentrarsi in regioni infere, umbratili, Meo mostra una grande agilità di cammino: proprio perché deve inoltrarsi in questa dimensione ctonia il suo è un linguaggio di misura e di precisione. S’imbatte in creature del basso («lumache, sanguisughe, larve, tarantole»), spesso nascoste alla vista e temibili, tra le quali procede conservando necessari margini di sicurezza «tra memoria e destino», esercitando forme di saggezza proprio nel leggere, dietro ogni apparizione, dietro ogni incontro, il manifestarsi di un codice simbolico: per questa via alcune presenze si fanno totemiche (come il topo per il poeta), rinviando così a una conoscenza primaria, ben più antica dello stesso linguaggio. Ma se guardiamo al titolo di una sezione come Solitudine occidentale, si ha più che l’impressione che tutta questa impalcatura araldica sia anche rivolta verso la critica di una connotazione borghese, che porta a rivisitare la propria storia famigliare alla luce di un distacco impossibile e di un contraddittorio, sempre aperto, con altri valori che non siano quelli di una classe votata al conformismo, all’onorabilità, al perbenismo, all’ascesa: «l’aspidistra muore / soffocata dai ragni». Ed è su questo piano che scrittura poetica e biografia si scambiano drammaticamente le parti, rivendicando altre forme di emancipazione e di libertà e rappresentando così una tensione altissima, che è solo una parte del mistero di questo libro.

 

Baldo Meo, Pareri sul mondo oscuro, puntoacapo 2022, e. 15.00.

 

 

 

Che cosa ti aspetti che sia questo

mercato di segni non scritti,

questa attesa di visioni rivelatrici

sotto leggeri alberi estivi?

Il flusso di mille sensazioni

nel delirio dei molti te stesso.

 

Finché non viene rivelato in simboli

il mondo resta muto.

lunedì 27 giugno 2022

Ad Anzio, il 30 giugno, a parlare di poesia e mare.

 


Giovedì 30 giugno, ad Anzio, per la rassegna "Occidente" curata da Angelo Favaro, con Annalisa Alleva, Paola Benigni, Maura Locatore e Giorgio Patrizi parleremo di poesia e mare. Grazie al curatore e al Comune per l'invito! Ci vediamo alle 18.30.

lunedì 20 giugno 2022

AILANTO n. 66 - su Mario Santagostini

 



Se la memoria non m’inganna, era dai tempi di Wilcock che un poeta italiano mancava di misurarsi apertamente con Wittgenstein. E se lo scrittore di origine argentina si era soffermato soprattutto sui «luoghi comuni» del nostro linguaggio e del nostro modello culturale, oggi Mario Santagostini, con il suo recente Il libro della lettera arrivata, e mai partita ci consegna una densa raccolta di testi in cui rielabora il concetto stesso di «gioco linguistico». A dispetto della conclamata impotenza del linguaggio a restituire e reinventare la complessità del reale, vero e proprio leitmotiv della modernità, specie novecentesca, questa volta il poeta sposta la problematicità del concetto su un versante che potremmo definire, senza troppo allontanarci dal vero, relativistico, proprio con riferimento alla fisica. Queste nuove poesie, nel loro insieme, se da una parte rinviano di frequente a un «qui» che sembra ammantarsi di concretezza (il presente da cui Santagostini scrive? Il tavolo al quale lavora? Il foglio su cui getta i semi delle sue poesie?), dall’altra rappresentano una profonda oscillazione del tempo e dello spazio. I rimandi al passato sono incessanti, percorrono l’intero volume con riferimenti sempre precisi; si tratta di un passato remoto, che precede la vita stessa dell’autore o in qualche modo la prepara, l’anticipa, o, sempre nel remoto, l’autore rievoca momenti soprattutto degli anni Sessanta e Settanta, quelli della sua giovinezza. Non è una rievocazione nostalgica, ma di tutt’altra specie. Accade infatti, in questi versi, una dislocazione che ci mette incessantemente in dubbio; la vita si moltiplica, proietta, rifrange in tutte le sue possibili «varianti» (e tali sono molti di questi testi nell’economia del libro), tra l’accaduto, il non accaduto, l’eventuale. I personaggi rievocati, a partire dal soggetto, vanno e soprattutto tornano, o mancano di arrivare, al «qui» che resta il solo denominatore spazio-temporale.

Accanto a Wittgenstein, infatti, l’altro nume tutelare è Kafka. Non tanto il Kafka del mostruoso e del grottesco, ma quello che meglio ha saputo rappresentare, più che l’ineffabilità, la prismaticità del reale: ciò che rinvia, nell’immediato, a una visione caleidoscopica, dove le immagini si presentano senza una precisa origine e senza una vera traiettoria. In questo modo sembra che funzioni per Santagostini la memoria, «maceria, dove non si cammina», in questi incessanti camouflages tra ieri e oggi. Nella sua estrema summa relativistica, il soggetto stesso fatica a tenersi insieme, si duplica per infinite rifrazioni, finisce inevitabilmente col sovrapporsi alle figure che la memoria richiama da un passato vissuto o non vissuto, da una strada percorsa o non percorsa, «perduta o non perduta». È questa «l’opera ancora nascosta» che la lingua è in grado di tessere, forse soltanto accennandola nei versi, per rinviarla a qualcosa che ancora deve manifestarsi. Dunque, anche la scrittura si fa vettore relativistico, tra accenni di «realismo magico», diffrazioni, derive contingentiste, in una dimensione plurima da cui, come sui buchi neri o sui misteri del cosmo, si aprono improvvise «finestre» su ciò che è stato o non è stato o avrebbe potuto essere. Compreso il legame filiale, corrente tutt’altro che sotterranea che interessa l’intero volume: ogni qual volta il tempo viene chiamato in causa, e in prospettive così determinate e inquietanti, quel rapporto rappresenta la più profonda tensione che anima e agita la lingua.

Ci parla, di questo tendersi tra continuo e discontinuo, anche il ritmo di questo libro: ora scritto in versi, ora in prose che talvolta alludono al poemetto, altre volte si limitano a mimarlo, in una incessante anamorfosi che spiazza il lettore e con l’assoluto rigore, a cui questo poeta ci ha abituato, lo pone nel mezzo di un vortice interrogativo, forse invitandolo a guardare alle cose della vita da un centro che non è più tale, da un silenzio che ancora ci attende.

 

Mario Santagostini, Il libro della lettera arrivata, e mai partita, Garzanti 2022, e. 20,00.

 


A se stesso, anni fa

 

Stasera, cammini sul corso.

E consideri tutta la gente che vedi

o vedrai come

gente perduta, e ritrovata.

Poi, che quando hai amato qualcuno,

era la seconda volta.

E tornava, chi se ne era andato.

E un giorno, forse,

avrai più di una vita da lasciare.

Ma una, da ricordare.

 

E avrai più ore, di quelle che hai passato.

mercoledì 15 giugno 2022

AILANTO n. 65 - su Eduardo Ainbinder

 



Forse non una vera e propria estetica, ma in ogni caso una rappresentazione del mostruoso, nelle lettere argentine, si deve alla sprezzante verve iconoclasta di Juan Rodolfo Wilcock, l’autore che meglio ha saputo esprimere, con coerenza, quanto di grottesco, assurdo, deforme è nella natura dell’uomo e nei suoi modi di instaurare rapporti, leggere la realtà. E forse qualche traccia di Wilcock si può trovare in Eduardo Ainbinder, un poeta che della deformazione ha fatto lo strumento «che svela il vero volto del reale», come scrive Francesco Tarquini introducendo il lettore italiano a una breve raccolta pubblicata dalle meritorie edizioni Fili d’Aquilone. Il libro, che prosegue un progetto editoriale particolarmente attento alla poesia dell’America latina, si intitola nell’originale ¡Párense derecho! ed è stato pubblicato in Argentina nel 2015. Dal risvolto di copertina apprendiamo qualche notizia su questo autore, nato nel 1968: collaborazioni a riviste e case editrici, qualche sparuta, introvabile plaquette, poi raccolta in un volume del 2007, Con Gusano. Tutto qui. Avarizia, pigrizia, gioco a nascondersi, come è spesso dei letterati di quel continente? Il talento non si misura a peso, certamente, e il curatore ci assicura che questo è bastato affinché Ainbinder trovasse il suo posto nella poesia argentina, portandovi un carattere che solo con approssimazione si potrebbe definire satirico.

I tratti provocatori ci sono tutti, e, come spesso accade, restituire ai lettori quanto di deforme è nel carattere umano rende la propria operazione, già in partenza, poco classificabile. Chi rimesta le carte della vita, della storia, della politica, è, di per sé, un anticanonico, qualcuno di dubbia collocazione. È sempre stato così e non ci sorprende affatto; a patto, però, di non rinunciare all’esercizio del wit, all’eleganza e alla precisione con cui il poeta satirico (o comico, o ironico, o umoristico: in realtà si tratta di sfaccettature di uno stesso, ricchissimo prisma) scocca le sue frecce. In questa raccolta, in particolare, tradotta da Tarquini con Su, dritti in piedi!, Ainbinder allestisce di testo in testo una propria, personale galleria dell’anomalo e del mostruoso, spingendo per questa via il lettore «ad andare contro i rumori dell’epoca», avverte il curatore. Ci imbattiamo così in una serie di personaggi che più ci paiono inverosimili e più, indiscutibilmente, ipostatizzano quanto quelle deformità siano consustanziali alla natura umana, le appartengano nel profondo. Scorrendo questa «reunión de fealdades», quest’«adunanza di brutture» - come traduce Tarquini riuscendo in un compito non semplice – ci accorgiamo però che la vera deformità, sul piano fisico e rispetto ai mostri di Wilcock, riguarda piuttosto la vecchiaia, e che la vera, temibile metamorfosi è un processo più interiore, per il quale «si vedono i sogni battere uno ad uno in ritirata / di chi si trasforma in tutto quanto detesta» (Pur non amando). Talvolta le immagini s’inarcano, la lingua sfiora il nonsense (come nei limerick inglesi, si lascia trascinare dal gioco delle rime) senza però nulla perdere della sua forza critica, anzi, alleggerendola e guardando così a una cultura tutt’altro che estranea al gusto argentino. Ma «il vero volto del reale» resta quello di un’anziana «vecchia quanto il cucco / tra le cui rughe spariscono occhi e faccia». Davvero «lo real no se parece a nada», «il reale non somiglia a nulla». 

 

Eduardo Ainbinder, Su, dritti in piedi!, a cura di Francesco Tarquini, Edizioni Fili d’Aquilone 2022, e. 15.

 

Nella nostra Casa Istituzione

 

sono le sedie i soli abitanti dritti in piedi.

E anche se senza tregua

udiamo le strida

del nostro istitutor: Su, dritti in piedi!,

non c’è maniera, non c’è modo

di non sembrare altrettanti Quasimodo.

E se picchia alla porta

della nostra Casa Istituzione

qualche egoista in vesti di altruista

all’oscuro della regola essenziale

che dice: “A chi accatta con aria vergognosa

non si chiede, si dà”,

niente abbiamo da dare

a meno che un giorno diventiamo

striminziti al limite del possibile

se non altro per offrire

all’aria minore resistenza.

martedì 31 maggio 2022

AILANTO n. 64 - su Biancamaria Frabotta

 


«Nessuno veda nessuno» è un titolo stratificato, ambiguo. Allude all’accecamento di Polifemo da parte di Ulisse/Nessuno, in qualche modo a una resa di conti che non coinvolge soltanto i due attori sulla scena, ma anche i compagni perduti, divorati dal ciclope, e quelli che potranno salvarsi. La solitudine è apparente, è lo scontro tra la singolarità dell’ingegno (che si apre sulle cose del mondo, le osserva, le analizza) e la singolarità dell’istinto predatorio, che pare divorare un mondo intero nella sua goffa, terribile voracità. Ma le vittime, come i superstiti, rappresentano il prima e il dopo di quella scena, la sua ragione intima, e sono piuttosto una coralità. Proprio con un Corale si apre l’ultimo libro di Biancamaria Frabotta, da oggi in libreria per lo Specchio Mondadori; e con apparente antitesi va a chiudersi con un distico di presenza, «Qualcuno auspica un poeta che ami / gli esseri umani più che la poesia», che nella realtà risponde a un desiderio, quasi a un’invocazione. Nessuno veda nessuno è un testo ricco di presenze, chiamate, rievocate, raccolte attraverso una sostanziale anamorfosi del tempo, della memoria, della poesia. Ci sono i vivi e le apparizioni dei morti, sempre, queste ultime, in quella particolare soglia tra notte e giorno, in quell’indefinito volgersi della tenebra verso una luce ancora stentata, quando il sogno o il pensiero, o entrambi, possono agire le ombre dell’affettività, disfare i confini dell’assente e richiamare, di nuovo a noi prossime, tracce tangibili, parlanti, di chi ci ha lasciato. E ci sono i vivi che hanno scandito, e ancora scandiscono, tappe essenziali di un intero tracciato esistenziale. Se, come invita a riflettere la terza sezione del libro, un poeta è il suo alfabeto, le lettere di Biancamaria Frabotta sono l’inizio di nomi propri, più che di cose.

L’intero patrimonio di una vita è racchiuso, riassunto in questi versi estremi. La coralità come condizione di una «solitudine» che riguarda ciascuno e che arretra fino ai primordi del creato; la nascita e l’infanzia, l’identità famigliare, con il gioco di reciproche proiezioni sulle sorelle, Gabriella e Adelaide; gli incontri fondamentali, le amicizie che presto si traducono in veri poli di tensione; le corrispondenze (in senso foscoliano) con alcune figure femminili a cui è dedicata un’intera sequenza, non a caso intitolata I vostri nomi; gli pseudo-epitalami che riecheggiano la felicità matrimoniale ben al di sopra di anniversari mancati, mai festeggiati nella consuetudine delle convenzioni, se «tanto valeva celebrare ogni giorno il nostro incontro». E così è stato, nella poesia e ancora prima nel quotidiano, nei giorni del sodalizio coniugale con l’amato Brunello, dal quale sentirsi, rincuorata, «per la seconda volta amata». Sbaglierebbe, però, chi volesse vedere in Nessuno veda nessuno una galleria di personaggi, ora tratti dagli immediati dintorni, ora più distanti, qui chiamati in causa come referenti, inquieti e involontari maestri a loro volta (Cvetaeva, Mandel’stam, De Beauvoir, Pessoa); è nell’insieme che la struttura del libro va colta, come una rete, come una incessante intersezione di temi e questioni che riallacciano, e in un certo senso compendiano, il percorso espressivo di Biancamaria Frabotta. In lei l’ethos del dire si fa, per l’appunto, afflato poetico; è nella dimensione del verso che l’autrice ritrova l’autenticità di una lingua che possa davvero ristabilire il contatto oltre le barriere, imposte, dell’isolamento, o quelle, più sottilmente ricercate, della solitudine, come recita l’epigrafe da Gadamer ad apertura di libro. Anche se quelle parole finiranno per condurci, inevitabilmente, verso «una regione accidentata / una ragione sinistrata», tra coscienza e smarrimento. 

Allora la solitudine, che qui fa da controcanto alle tante figure ricordate, può profilarsi come addestramento alla veglia, come esercizio di resistenza e di resilienza, termini a cui anche il linguaggio della cronaca, se non quello della politica, ci ha ormai abituato. Dalla metafora di un accecamento, che si nutre della sostanza del mito, queste poesie volgono nel loro insieme, nella loro assoluta compattezza, verso un’etica dello sguardo, verso la condivisione di una prospettiva comune, che è lo scenario della Storia.  Ne è spia, e segnale, quella dedica «(a voi che leggete)» messa lì, tra parentesi, come un’indebita intrusione dell’autrice. Non era mai accaduto, a mia memoria, nei precedenti libri. Come un viatico, che a un mese dalla sua scomparsa suona piuttosto come un testamento, quella dedica ci coinvolge doppiamente, come lettori, certo, ma direi soprattutto come interlocutori: «Da sé ricresceranno le parole. / La Storia batte sull’incudine». Se c’è stato un poeta che davvero abbia amato «gli esseri umani più che la poesia», a cavallo tra due secoli, questo risponde al nome di Biancamaria Frabotta.

 

Biancamaria Frabotta, Nessuno veda nessuno, Mondadori 2022, e. 15.00.

 

In una buia alba di vento

ho rimesso al mondo i morti

sognando a occhi chiusi

come è giusto che sia.

L’assenza unisce e disunisce

divide e avvicina ai vivi i risorti.

A questa sacrosanta finzione

mirabile e irreale, non potremo mancare.

Capirete. Dall’alto qualcuno attende

una parola. Altro miracolo non conosco.

Capirete. Non posso svegliarmi ora.

Ancora qualche minuto

la realtà può attendere.

Capirete. E non mi crederete.

martedì 24 maggio 2022

Ti veniva incontro il suo sorriso. Un ricordo di Biancamaria Frabotta

 Oggi, su Nuovi Argomenti, per Officinapoesia, il mio ricordo di Biancamaria Frabotta, aspettando il suo nuovo libro che uscirà a breve per Mondadori, Nessuno veda nessuno.


http://www.nuoviargomenti.net/.../ti-veniva-incontro-il.../






lunedì 16 maggio 2022

16 maggio rileggiamo Ariosto

Questo pomeriggio rileggiamo Ariosto. Sempre più necessario: distacco, saggezza, armonia, intelligenza. Ma chi potrà, oggi, riportarci il senno perduto?





sabato 7 maggio 2022

9 maggio, un pomeriggio di riflessioni sull'ecologia

Lunedì 9 maggio, dal primo pomeriggio fino a sera, vi aspettiamo all'Orto botanico di Palermo per discutere di arti e ambiente. Grazie all'Università, che ci ospita, e a Lavinia Spalanca infaticabile organizzatrice. 





venerdì 29 aprile 2022

Montale a Palermo

Lunedì 2 maggio, alla libreria Feltrinelli di Palermo, presenteremo con Lavinia Spalanca il suo recente volume Eugenio Montale. Morale, meditativo, moderno. Ci saranno interventi musicali di Marco Giliberti e Francesca Sollima.





martedì 19 aprile 2022

«All'altro capo»” al Premio Moncalieri

 All'altro capo ha vinto il Premio Moncalieri. La cerimonia si svolgerà il 20 aprile.




«Un fotogramma sul prima». A Bassano in Teverina il 23 aprile

Il 23 aprile, alle ore 11, nel borgo di Bassano in Teverina, si inaugura la mostra di Primarosa Cesarini Sforza, ospitata nella galleria «Cervo volante» di Tommaso Cascella. Durante l'inaugurazione sarà presentato il volumetto che raccoglie alcune opere scelte dell'artista, accompagnate da quattro mie poesie inedite. Grazie a Primarosa per questa occasione, e a Tommaso per averla realizzata.





mercoledì 6 aprile 2022

Il «Tempo d'opera» di Alberto Toni.

Sono ormai tre anni, proprio oggi, che Alberto Toni ci ha lasciato. Quest'estate la casa editrice Il ramo e la foglia pubblicherà una raccolta inedita, già pronta per la stampa, che Alberto aveva nel suo computer. È un modo per riaverlo tra noi. Qui un'anticipazione (ovvero su larecherche.it).





domenica 23 gennaio 2022

«Solstices»

 

La rivista «Solstices» (titolo che mi è familiare) mi dedica un numero monografico, con proposte di poesie da tutti i miei libri. È un grande onore per me ritrovarmi nelle belle traduzioni di Rodolphe Gauthier, così aderenti e insieme così creative. Grazie a lui e a tutto il progetto Solstices. Per chi ama la lingua di Baudelaire, buona lettura!



https://solstices-project.com/revue-solstices-n4