«Nessuno veda nessuno» è un titolo stratificato, ambiguo. Allude all’accecamento di Polifemo da parte di Ulisse/Nessuno, in qualche modo a una resa di conti che non coinvolge soltanto i due attori sulla scena, ma anche i compagni perduti, divorati dal ciclope, e quelli che potranno salvarsi. La solitudine è apparente, è lo scontro tra la singolarità dell’ingegno (che si apre sulle cose del mondo, le osserva, le analizza) e la singolarità dell’istinto predatorio, che pare divorare un mondo intero nella sua goffa, terribile voracità. Ma le vittime, come i superstiti, rappresentano il prima e il dopo di quella scena, la sua ragione intima, e sono piuttosto una coralità. Proprio con un Corale si apre l’ultimo libro di Biancamaria Frabotta, da oggi in libreria per lo Specchio Mondadori; e con apparente antitesi va a chiudersi con un distico di presenza, «Qualcuno auspica un poeta che ami / gli esseri umani più che la poesia», che nella realtà risponde a un desiderio, quasi a un’invocazione. Nessuno veda nessuno è un testo ricco di presenze, chiamate, rievocate, raccolte attraverso una sostanziale anamorfosi del tempo, della memoria, della poesia. Ci sono i vivi e le apparizioni dei morti, sempre, queste ultime, in quella particolare soglia tra notte e giorno, in quell’indefinito volgersi della tenebra verso una luce ancora stentata, quando il sogno o il pensiero, o entrambi, possono agire le ombre dell’affettività, disfare i confini dell’assente e richiamare, di nuovo a noi prossime, tracce tangibili, parlanti, di chi ci ha lasciato. E ci sono i vivi che hanno scandito, e ancora scandiscono, tappe essenziali di un intero tracciato esistenziale. Se, come invita a riflettere la terza sezione del libro, un poeta è il suo alfabeto, le lettere di Biancamaria Frabotta sono l’inizio di nomi propri, più che di cose.
L’intero patrimonio di una vita è racchiuso, riassunto in questi versi estremi. La coralità come condizione di una «solitudine» che riguarda ciascuno e che arretra fino ai primordi del creato; la nascita e l’infanzia, l’identità famigliare, con il gioco di reciproche proiezioni sulle sorelle, Gabriella e Adelaide; gli incontri fondamentali, le amicizie che presto si traducono in veri poli di tensione; le corrispondenze (in senso foscoliano) con alcune figure femminili a cui è dedicata un’intera sequenza, non a caso intitolata I vostri nomi; gli pseudo-epitalami che riecheggiano la felicità matrimoniale ben al di sopra di anniversari mancati, mai festeggiati nella consuetudine delle convenzioni, se «tanto valeva celebrare ogni giorno il nostro incontro». E così è stato, nella poesia e ancora prima nel quotidiano, nei giorni del sodalizio coniugale con l’amato Brunello, dal quale sentirsi, rincuorata, «per la seconda volta amata». Sbaglierebbe, però, chi volesse vedere in Nessuno veda nessuno una galleria di personaggi, ora tratti dagli immediati dintorni, ora più distanti, qui chiamati in causa come referenti, inquieti e involontari maestri a loro volta (Cvetaeva, Mandel’stam, De Beauvoir, Pessoa); è nell’insieme che la struttura del libro va colta, come una rete, come una incessante intersezione di temi e questioni che riallacciano, e in un certo senso compendiano, il percorso espressivo di Biancamaria Frabotta. In lei l’ethos del dire si fa, per l’appunto, afflato poetico; è nella dimensione del verso che l’autrice ritrova l’autenticità di una lingua che possa davvero ristabilire il contatto oltre le barriere, imposte, dell’isolamento, o quelle, più sottilmente ricercate, della solitudine, come recita l’epigrafe da Gadamer ad apertura di libro. Anche se quelle parole finiranno per condurci, inevitabilmente, verso «una regione accidentata / una ragione sinistrata», tra coscienza e smarrimento.
Allora la solitudine, che qui fa da controcanto alle tante figure ricordate, può profilarsi come addestramento alla veglia, come esercizio di resistenza e di resilienza, termini a cui anche il linguaggio della cronaca, se non quello della politica, ci ha ormai abituato. Dalla metafora di un accecamento, che si nutre della sostanza del mito, queste poesie volgono nel loro insieme, nella loro assoluta compattezza, verso un’etica dello sguardo, verso la condivisione di una prospettiva comune, che è lo scenario della Storia. Ne è spia, e segnale, quella dedica «(a voi che leggete)» messa lì, tra parentesi, come un’indebita intrusione dell’autrice. Non era mai accaduto, a mia memoria, nei precedenti libri. Come un viatico, che a un mese dalla sua scomparsa suona piuttosto come un testamento, quella dedica ci coinvolge doppiamente, come lettori, certo, ma direi soprattutto come interlocutori: «Da sé ricresceranno le parole. / La Storia batte sull’incudine». Se c’è stato un poeta che davvero abbia amato «gli esseri umani più che la poesia», a cavallo tra due secoli, questo risponde al nome di Biancamaria Frabotta.
Biancamaria Frabotta, Nessuno veda nessuno, Mondadori 2022, e. 15.00.
In una buia alba di vento
ho rimesso al mondo i morti
sognando a occhi chiusi
come è giusto che sia.
L’assenza unisce e disunisce
divide e avvicina ai vivi i risorti.
A questa sacrosanta finzione
mirabile e irreale, non potremo mancare.
Capirete. Dall’alto qualcuno attende
una parola. Altro miracolo non conosco.
Capirete. Non posso svegliarmi ora.
Ancora qualche minuto
la realtà può attendere.
Capirete. E non mi crederete.
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