giovedì 2 novembre 2023

Da luoghi profani

La casa editrice Les Flaneurs ha pubblicato il nuovo libro di Elisabetta Destasio Vettori, Da luoghi profani, con la mia prefazione che qui posto.

Auguri a questo libro lungamente meditato e atteso.





C’è un perimetro preciso in queste nuove poesie di Elisabetta Destasio Vettori, un confine, un recinto ritagliato nel vivo dell’esperienza, come quello tracciato da un’antica regina mentre fondava una nuova città. Perché il perimetro di cui parlo non è solo il luogo di un’identità, anche poetica, ma è il luogo di conservazione – e di espressione - di una forza lirica che si consegna al futuro, pure nella sua ineffabile incertezza, o nei segni che già il presente lascia adombrare. I punti cardinali di questa geografia privata sono rappresentati dall’io, incombente, pervasivo, dai riferimenti famigliari (il padre e la madre), da una città irrinunciabile e dura, quindi struggente come Roma, raccontata nei suoi ineguagliabili passaggi di stagione.

Il poeta che parla in questi versi non si risparmia, è perfettamente consapevole che la poesia è il luogo di un dire totale e insieme è l’occasione, il momento di una precisa, finanche spietata messa a fuoco. La spietatezza è un dono del linguaggio, del suo democratico accogliere tutte le sfumature possibili del senso; scrivere è, come per Baudelaire, mettere a nudo il cuore, le sue pulsazioni, le sue vibratili emozioni, fino a scavare nel fondo stesso del sentimento, ora nascente, ora già decantato, ora illuso o disilluso. Un altro dominio delle poesie raccolte in questo libro così compatto, denso e necessario, è infatti quello dell’eros, ma qui, rispetto a quel recinto, si ha più che la sensazione che i cardini non reggano, che il corpo stesso esploda nell’altro-da-sé; innominato, indecifrabile forse, vicino e distante. La corrente affettiva che si riversa sulla memoria, sul passato, sull’assenza o sulla malattia dei genitori, adesso si fa calma tempesta, ma si tratta di una deformazione. È il processo di distacco che la poesia impone, a far sì che laddove il corpo dialoga con l’altro corpo entrambi siano còlti nella naturalezza del movimento; ma si avverte, neppure troppo in filigrana, che c’è stata un’insorgenza tellurica, una pulsione che dal profondo è risalita fino alla chiarità del verso. E quel distacco parla il lessico dell’anatomia, il più descrittivo, il più selettivo e asettico.

Una mappa personale è sempre un tracciato che ci riporta inevitabilmente a noi stessi, provocando l’abbaglio di un approdo. In realtà ci accorgiamo, non senza un residuo di infantile sorpresa, che siamo tornati al punto di partenza, che abbiamo solo compiuto il periplo di ciò che siamo. Molte delle citazioni con cui Elisabetta Destasio Vettori puntella il suo percorso di lettrice alludono a questo o lo sottintendono, e sotto la patina di rigore di questa lingua così tesa ogni tanto fa capolino uno spiritello, che vorrebbe forse liberarsi dalle maglie così severe e assertive dell’adulto. Ma tant’è: sola liberazione è il ricordo, ci dicono i poeti, e allora l’attenzione si volge a un passato in cui perfino quella geografia così certa, forse rassicurante, deflagra verso continenti lontani, e verso una storia famigliare più stratificata e complessa. È l’Africa, è l’infanzia stessa del mondo che si affaccia in questi versi con minime indicazioni topografiche, sufficienti però a innestare in chi legge, accanto a un facile richiamo esotico, anche una nostalgia d’infinito. È lì che il soggetto vorrebbe infine approdare, segnare il punto in cui il viaggio termina e ogni tensione può placarsi? È lì, in una casa remota nello spazio e nel tempo, che è possibile ritrovare l’ubi consistam disperso nei rivoli di una quotidianità aspra?

Non possiamo dirlo, e anche le poesie si fermano giocoforza sulla soglia di un’intuizione, di un suggerimento. La loro dimensione vuole tornare a essere quella del presente, dove s’intrecciano a più riprese il caos relazionale, il lento addio della figura materna, il vuoto lasciato dal padre. È allora che la poesia, trascendendo sé stessa, arriva a farsi preghiera laica, litania, invocazione, o breve ritratto di un amore trasfuso in terapia. Tutto questo, però, nel ritmo nervoso delle analogie, negli accostamenti repentini che accompagnano il sentire la realtà da parte di una mente inquieta, felicemente disposta a raccontarsi.

Didone aveva fondato Cartagine facendo a listelli una pelle animale, Romolo aveva tracciato un solco con l’aratro. L’idea di uno spazio così preciso, esatto è nel dna stesso di Elisabetta Destasio Vettori, ed è ciò che la preserva nella sua identità forte e nello stesso momento attutisce gli scossoni a cui il vivere ci abitua. Ogni evento è come allentato nella sua forza d’urto dalle spesse mura che sono state costruite su quei segni primari, che sono le stesse mura dell’io. In questo senso la presenza di un autore amato come Josif Brodskij fa intuire il significato vero di un paesaggio di brulichii e di rovine, dipinto nella fissità maestosa di un’eternità, che lo segna a dispetto di tutto. «Io sono stato a Roma», ripeteva il poeta che dalla terza Roma si era recato fin nella Babilonia del ventesimo secolo, oltre l’Atlantico, ma che era solito fare tappa nell’urbe, o nella laguna veneta. Solo qui poteva trovare ciò che quella Babilonia, nella sua apparente libertà, non poteva dargli in alcun modo: lo spessore di una temporalità, ingrediente fondamentale affinché la poesia possa compiere appieno il suo esorcismo e tornare ad affidarsi al fluire della vita.

Non si avverte fragilità, in questo libro che si attesta come l’opera di una maturità ormai raggiunta; ogni frase è come scolpita, ogni singola immagine è un distillato finanche feroce. Ma questo si diceva sul principio: c’è una necessità, e quindi una libertà, anche nella spietatezza. Gli dèi che ancora s’aggirano, furtivi e guardinghi, nei vicoli notturni di Roma, lo sapevano meglio di chiunque altro. E continuano a saperlo, sognando un Olimpo impossibile.

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